Siamo nella settimana post-Sanremo. L’Evento Nazional-Popolare per definizione che, negli ultimi anni, è tornato a dominare il dibattito ‘culturale’ (inquinato dal gossip? Distorto da logiche di potere tra case discografiche? Alimentato da polemiche inutile che distolgono lo sguardo dalla ‘sostanza’, e cioè le canzoni?) anche tra le nuove generazioni. Lo svecchiamento degli ultimi anni, sembra aver funzionato. In una scaletta logorante (29 cantanti in gara), dove la fanno da padroni i ‘reduci’ dei talent, la ‘quota rap’ è abbastanza consistente. Un nome su tutti, Dj Shablo: insieme a Gue, Joshua e Tormento, con il brano La mia parola, ha portato un pezzo di Hip Hop sull’Ariston. Portando inoltre, nella serata-Cover, Neffa con Aspettando il Sole. Simbolico.
Come esponente di rilievo del nostro ambiente, c’era anche Willie Peyote. Artista ormai sempre più ‘lontano’ – in un certo senso – dal rap e sempre più affine, sul piano della scrittura, ad un filone trasversale della musica italiana che attraversa i generi – toccandoli tutti – per dire altro (e meglio, forse).
Grazie, ma no Grazie: come essere critici dall’interno con Willie Peyote
Con Grazie, ma no Grazie, in realtà, non siamo molto lontani da La Locura (Mai dire Mai). Come atmosfere, e intenzioni. Più che come una ripetizione, comunque, il tutto suona come un percorso concluso, come la chiusura di un cerchio, Da Sanremo a Sanremo.
I due pezzi appena citati aprono e chiudono la versione deluxe dell’EP Sulla Riva del fiume. La foto di un momento – personale e ‘storico’ – denso e sfuggente. Un momento così drammaticamente grottesco che solo una chiave ironica sul mondo può provare a decifrare. Ma forse non è neanche questo il punto.
Forse Sulla riva del fiume è solo un disco di un artista che, giunto ormai sulla riva opposta, descrive le sensazioni di chi si trova nel posto sbagliato, ma nel momento giusto. O forse non è nemmeno questo. È un disco, comunque, che genera dubbi. E il dubbio è sempre positivo.
Sulla riva del fiume I: Flash!
Annotazione personale. Vedere Willie Peyote col vestito ‘giusto’, su ‘quel’ palco, ha generato un flash, un cortocircuito. È il 2016, e siamo – credo – al Quirinetta, a Roma. Il tour di Educazione Sabauda, uno di quei dischi che rappresenta, per un artista, per un rapper, la maturità raggiunta: un equilibrio tra le parti, tra le tante parole che il rap riesce a strapparti, e a fissare in un momento (appunto).
È in questo senso che posso dire che, vederlo in televisione, a Sanremo, mi ha fatto un certo effetto. Partire da quel disco – un disco profondamente Rap nella sua accezione più Hardcore e spontanea, genuina; e comunque complessa e matura anche a livello tecnico – per arrivare ad un pubblico generale (e generalista).
Il suo riconoscimento è una vittoria collettiva: siamo cresciuti con la consapevolezza – indotta? – che scrivere il Rap non equivalesse a scrivere canzoni. La contemporaneità ci ha dimostrato il contrario, eleggendo il rap come mezzo d’espressione universalmente accettato e compreso – e sfruttato e assorbito dall’industria musicale – perché più immediato e ‘semplice’.
È il 2025, e l’esaltazione dell’individuo/personaggio, l’egocentrismo e il vendere te stesso in tutti i modi possibili hanno consacrato il rap – genere nel quale la materia principale dalla quale attingi sei te stesso – come la musica di ‘massa’, quella che rappresenta ‘meglio’ certi aspetti di chi la ascolta.
In tutto questo discorso – del grande e grottesco show della vita pubblica, e della ‘vittoria’ del personaggio sulla persona (e forse esagerando, di un’umanità sempre più vuota e algoritmica) – Che personaggio è, allora, Willie Peyote?
Chi lo ha ascoltato attentamente ne può tracciare una sorta di ‘profilo’: il ‘Giovane Nichilista’ diventato uomo ha assolto, nel nostro immaginario, la funzione di critica interna, di chi si trova sì all’interno di un Sistema – perché il Sistema si è armato a tal punto da impedire sul nascere ogni forma di ‘evasione’ – ma da una prospettiva e con ruolo ‘privilegiato’.
Un musicista (un artista) può – deve? – darci una prospettiva, una suggestione. Sulla riva di quel fiume, Willie Peyote ci canta la sua. Con ironico distacco, cinismo disilluso, e mestiere.
Sulla riva del fiume II: Spunti vari
Sulla Riva del Fiume, nella sua veste ampliata, è soprattutto un mood, uno stato emotivo. Un’idea musicale. La produzione di questo disco è il vero punto di forza: prescindendo per un attimo da Willie – personale e a fuoco come sempre nella scrittura – il concept musicale è coerente.
C’è un’omogeneità che non è ripetizione. Un filo conduttore che, tra le varie contaminazioni, ci porta dentro una tradizione, a nostro avviso, non etichettabile. Un territorio semi-inesplorato, che travalica contrapposizioni di valore puramente ‘economiche’ (Underground/Mainstream), generi e definizioni.
Dentro questo contenitore composito c’è sicuramente il Rap. Se non altro nell’approccio ai pezzi, e nell’affacciarsi dei contenuti: sulla superficie – come nell’immagine di copertina – c’è l’uomo che fuma assorto guardando un ‘soffitto’. Ma, appena sotto la superficie, i mille dubbi irrisolti, le insicurezze.
“Tanto fanno finta, ma lo sanno/Più è profondo e meno paga quasi sempre/Meglio stare in superficie, salvagente/Le risposte che ti danno/Sembran fatte con lo stampo/Quindi metterò le mani avanti/Due passi indietro ogni passo avanti”
L’ossatura del disco si potrebbe – schematizzando – dividere tra i pezzi già presenti nell’EP (fra i quali spicca e si distingue Giorgia nel paese che si meraviglia, un pezzo che – in misura simile alla serie M – il figlio del secolo – coglie la temperatura politica del paese, evidenziandone il lato grottesco) e le nuove tracce.
Tra i brani già editi che meritano di sicuro un nuovo ascolto c’è sicuramente Buon Auspicio, un pezzo amaro, sofferto, che sotto la superficie di ‘pezzo italiano classico d’amore finito’ c’è una riflessione più profonda e approfondita su questa condizione universale, di precarietà perenne.
Tra i nuovi pezzi post-Sanremo, ci sono, a brillare particolarmente, Chissà (accompagnato da Ditonellapiaga), Cowboy e, soprattutto, La legge di Murphy. È il ‘pezzo Rap’ della raccolta, quello più sbruffone, più spontaneo e volutamente ‘cazzone’.
avete rotto il cazzo in due parole, questo è il concept
E, ad aprire e chiudere il cerchio, i pezzi presentati a Sanremo, da outsider. Da integrato che tenta – nonostante tutto- di contrapporsi.