«Poche cose sono specchio della società come il rap» – Intervista a Ted Bee

Ted Bee

Poche settimane fa è uscito un nuovo progetto di Ted Bee, Marcos. Abbiamo colto l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con lui, toccando tantissimi argomenti: dal punk ai prezzi dei concerti, dal disco dei Club Dogo al movimento Ultras, passando anche per il compianto Franco il Presidente. Trovate la nostra intervista completa a Ted Bee proprio qua sotto.

Ted Bee ci racconta il suo punto di vista su tanti temi

Volevo iniziare parlando un attimo della tua musica. Dall’ultima volta che ci siamo parlati in un intervista sono passati circa 3 anni. In questi 3 anni tu hai pubblicato ben 3 dischi: Amarcord, Vite Parallele e Marcos, appena uscito. Dopo tanti anni nei quali non hai avuto una prolificità elevatissima, abbiamo visto che adesso sei molto più attivo. Volevamo chiederti come mai sei tornato così attivo, se è cambiato qualcosa magari a livello di etichette, di tempo che riesci a dedicare al rap, di ispirazioni rispetto a qualche anno fa…

«In realtà, se tu vai a vedere, anche andando indietro, ogni anno qualcosa (anche solo un EP) lo buttavo fuori. Oggi, come mi capita spesso di dire, sono ormai le piattaforme a decidere che cosa è un album e che cosa è un EP. Nella mia idea, quello che ho fatto uscire (Marcos n.d.r.) è un EP esteso, poi in realtà sono i Digital Stores a decidere che quando carichi più di 7 tracce diventa in automatico un album. Diciamo che sicuramente sono successe tante cose negli ultimi 2-3 anni: ho cambiato 2 etichette nel giro di 3 anni. Però diciamo che un elemento comune negli ultimi 3 lavori (ed è una cosa su cui qualcuno giustamente mi ha anche un po’ preso in giro) probabilmente è la terza volta che presento il mio nuovo progetto come se fosse l’ultimo mio lavoro per sempre: come fosse la mia ultima fatica discografica. E puntualmente l’anno dopo, esco con qualcosa di nuovo».

Infatti era una cosa che ti volevo chiedere!

«Quando è uscito Vite Parallele avevo fatto uscire un post un po’ paraculo dove dicevo che forse sarebbe stata la mia ultima fatica discografica. Dentro a qual “forse” c’era un mondo e mi apriva alla possibilità di cambiare idea. In realtà spiega un po’ la genesi e il processo di questo lavoro che, come ti dicevo prima, nella mia ottica è più un EP esteso. Un po’ più un lungo EP che un album. E sarebbe dovuto essere un EP di sole collaborazioni. Con amici di cui sono amico e stimo. Una sorta di Ted Bee & Friends, mettila così. Poi in realtà nella lavorazione mi sono reso conto che alcuni brani non sono andati a buon fine con il featuring e quindi li ho chiusi da solo. Avevo magari 1-2 pezzi/testi parcheggiati nel cassetto e ho detto: “Vabbè, questo tutto sommato potrebbe starci!” Dato che è un progetto talmente anarchico che posso buttarci dentro quello che voglio, ho detto, potrebbe essere comunque l’occasione (dato che li avevo fatti sentire a qualcuno e piacevano) di pubblicarli. Quello che ne è venuto fuori sono appunto queste 7 tracce».

La prolificità comunque continua, perché tu, subito dopo aver pubblicato il disco hai pubblicato un singolo insieme a Kento. Volevamo chiederti qualcosa a riguardo. Se è un’anticipazione di un futuro album/EP assieme, se è un brano sporadico a sé, se farà parte di un disco di Kento…

«Al momento, sinceramente non ti saprei dare una risposta. Nel senso che ci stiamo un po’ annusando ancora. Sicuramente tra noi c’è un rapporto di stima artistica. Ci stiamo rendendo conto di avere una grande facilità nel fare pezzi insieme e c’è anche un’amicizia che di fatto si sta consolidando. Proprio gli scorsi giorni sono stato giù a Napoli con lui: c’è grande intesa. Abbiamo già fato diversi pezzi insieme: il singolo mio sul G8 un paio di anni fa, la collaborazione presente in Marcos, adesso abbiamo fatto questo singolo… Sicuramente la voglia di fare qualcosa insieme c’è. Abbiamo parlato della possibilità di fare un joint album insieme però, ti dico la verità, al momento non c’è nulla di concreto e non ne stiamo neanche lavorando in maniera così intensa perché ognuno è concentrato sulle proprie cose».

Abbiamo notato che il tuo rap segue diversi filoni: quelli dove magari ti concentri su episodi di storia, come potevano essere i testi di Vite Parallele o anche brani un po’ più impegnati dal punto di vista sociale, che proprio nei brani assieme a Kento riesci a tirare fuori appieno. Volevamo chiederti cosa ne pensi del rap utilizzato come “suono della protesta” al giorno d’oggi. Noi sappiamo che il rap è nato in Italia nei centri sociali, all’interno di certi contesti e di certi movimenti, ma adesso è quasi esclusivamente al di fuori. Siete rimasti in pochi a fare questo genere di rap…

«Si, la genesi del rap in Italia è quella, se pensi al periodo Posse, negli anni ’90, ma un po’ in generale anche quello americano. Si possono considerare i Pubblic Enemy (magari non in maniera così stretta) più o meno dei pionieri. L’origine è esattamente quella cosa lì. È un genere di protesta, anche laddove non è declinato nella forma prettamente politica, sicuramente quello della denuncia sociale, della discriminazione afroamericana, ecc. Mi fai venire in mente un intervista che avevano fatto a Rino Gaetano nella quale gli dicevano che la musica che parlava di denuncia sociale e di politica era in declino. E lui rispondeva che era in declino, perché era la politica stessa, la società stessa ad essere in declino. Per certi versi è così ancora. Secondo me poche cose sono specchio della società come il rap. Evidentemente questa è un epoca storica in cui determinate tematiche non sono così diffuse e di moda. Di riflesso, non sono neanche così presenti nel rap. A me sicuramente piacerebbe che tutto ciò potesse tornare in auge anche perché il rap è una forma di linguaggio che si presta dannatamente bene a trattare una serie di temi. Adesso che viviamo in un periodo di continue reunion di gruppi storici e di recupero di vecchi repertori, a me ad esempio piacerebbe molto che le nuove generazioni tornassero a conoscere (l’ho detto anche esplicitamente in un brano) un gruppo come i 99 Posse. Che se ci pensi è uno di quei gruppi che ha fatto la storia del rap di fine anni ’90 e che non ha ancora avuto il suo periodo di riscoperta come magari c’è stato con i Sottotono prima, gli Articolo 31, i Club Dogo o si sta avendo anche in altri generi (vedevo adesso che hanno pubblicato la tracklist del nuovo disco dei Finley, per dire…). Questo momento che sembra essere un po’ l’epoca amarcord, sarebbe bello che anche quel pezzetto lì di gruppi o di storia a cui tu facevi riferimento venisse riscoperto».

Nel tuo disco nuovo, c’è anche un featuring con Young Stalin dei P38, che è una collaborazione abbastanza particolare. Volevamo sapere come sei entrato in rapporto con loro, cosa ne pensi della loro musica e di quello che comporta (principalmente a loro) la loro musica: perché loro si sono messi in gioco e stanno rischiando veramente…

«Assolutamente! Io sono entrato in contatto con loro soprattutto per un fatto di stima reciproca. Perché a me la loro roba e il loro disco è piaciuto molto. Nell’anno in cui è uscito lo avevo tra i dischi del genere dell’anno. Loro mi hanno confermato comunque che tra le loro fonti di ispirazione più importanti ci sono sicuramente io, anche perché se ci pensi, quella cosa lì, determinati temi, sono quelli che io trattavo già 20 anni fa, se pensi a pezzi come Fuoco e Fiamme. La loro vicenda la conosco molto bene, anche perché io ho presentato loro l’avvocato che tuttora li rappresenta. Io la considero una vicenda abbastanza scandalosa che spero che si risolva quanto prima. Uno dei classici esempi di censura di un’opera artistica. Perché è palese il loro intento provocatorio dei testi e situazionista delle loro performance. Solo la miopia di qualche Pubblico Ministero può non comprendere il fenomeno P38 per quello che è. Ovvero un esperimento artistico, con sicuramente una forte denuncia sociale alla base. Ed è questo che spaventa: mettere in discussione una serie di pilastri che, in una società liberale, a volte non è consentito»

In realtà è una vicenda che paradossalmente ha dei parallelismi con quello che è successo in America con Youg Thug. A partire dai testi delle canzoni, hanno iniziato ad accusarlo e hanno fatto delle indagini. Lì però è emerso che avesse a che fare con dei criminali. Non è ancora chiaro come evolverà quel processo, però è una cosa che in qualche modo può fare epoca: un artista venga indagato a partire dai testi delle sue canzoni.

«In realtà sono sincero, la vicenda Young Thug non la conosco bene quindi non mi sentirei di fare dei parallelismi, se non per dire che certamente non c’è nessun punto di contatto tra i P38 ed eventuali gruppi eversivi o terroristici. Più che altro io troverei delle analogie con casi di censure che già ci sono stati in passato, ma portato ad un grado superiore. In questo caso si parla non di semplice censura, tipo impossibilità ad entrare in determinati circuiti, ma di sentenza penali per quello che è stato scritto! Quindi di reati di opinione, per come la vedo io! Una cosa a mio parere molto grave che spero che si risolva al più presto e venga presa per quello che è».

Cambiamo argomento: il tuo ultimo disco esce per l’etichetta Punx Crew, giusto?

«Esatto, si!»

Tu in qualche modo ti senti legato alla scena Punk? Quali sono i tuoi legami con questa scena, come sei entrato in contatto con loro?

«Io sono legato molto alla scena punk! Probabilmente tra i miei gruppi preferiti di un periodo della mia vita, diciamo dal secondo quarto della mia esistenza, dai 25 anni in poi, ci sono più gruppi punk che gruppi rap. Mi vengono in mente band come i Rancid piuttosto che i Booze & Glory, ma anche realtà italiane. Io da sempre sono appassionato di controculture, mi sono avvicinato/appassionato al rap in quanto controcultura e ho sempre cercato di conoscere tutte le altre. In questo senso specifico, io appunto ho creato un sodalizio che va avanti a intermittenza con Andrea Rock da una decina di anni, da quando lui produsse il mio disco Phoenix. Lui ovviamente anche (molto più di me) legato a quel mondo lì. Lui ha uno studio, una label che si chiama Attitude con la quale mi sto legando in qualità di H&R per creare una sorta di sotto-ramo di Attitude Records, che sarà Urban Attitude. L’idea è quella di sviluppare all’interno di una realtà prettamente punk/rock un filone più urban. Dentro al termine urban, sai meglio di me, che ci rientrano generi molto diversi. Io entro quindi, per portare la mia esperienza e le mie competenze. Questo è sostanzialmente il link. Le edizioni Punx Crew è qualcosa di legato a questa realtà che già esiste e che stiamo cercando di incrementare».

Restando in tema punk: lo scorso anno è venuto a mancare Franco il Presidente degli Knife 49. Volevamo chiederti che cosa ha rappresentato per te. Perché abbiamo notato questa cosa: era sicuramene molto legato alla scena rap, tutti quanti gli hanno fatto un post di cordoglio, ma tu sei l’unico che ha fatto addirittura un brano dedicato a lui. Per questo volevamo chiederti com’era il vostro rapporto, da cosa è nato, cosa vi legava, cosa ha rappresentato per te e per Milano.

«Io credo di aver conosciuto Franco almeno 20 anni fa, probabilmente dai tempi della Cripta o comunque sul set di Milano Calibro 9 di Vincenzo Da Via Anfossi. Quando ancora la Dogo Gang non esisteva. Per me è stato un grande dispiacere la perdita di Franco perché paradossalmente io ho iniziato a conoscerlo veramente e a frequentarlo di più, solo successivamente alla “fase Dogo Gang”. Anche nell’ultimo periodo ci vedevamo molto spesso. Sono andato più volte a vederlo suonare, ci vedevamo la sera al Pogue. Aldilà del ricordo personale che posso avere di Franco, quello che mi piace ricordare di lui (e che forse non è passato abbastanza), è che Franco era veramente un grande artista. Era uno che sapeva scrivere delle canzoni che avevano una poesia e una poetica di strada veramente punk, nel senso più puro del termine. Se dovessi cercare un paragone, io lo paragonerei a una sorta di Jim Carroll italiano. Jim Carroll è un po’ il poeta del punk. Se si va a guardare il suo disco, Storie del 2017 (un disco che è passato veramente in sordina, non se n’è accorto nessuno!), è una compilation del meglio del rap italiano di quel periodo! In un periodo in cui questi esperimenti non c’erano. Adesso, per fare un esempio, mi viene in mente che esce il disco di Baby Gang con dentro tutti i rapper… Franco aveva riunito veramente il meglio di quel periodo. In realtà questo disco è uscito nel 2017 ma era stato fatto anni prima. E quando parlo di anni prima, intendo almeno 5 anni prima! Mi piacerebbe che, adesso che non c’è più, venga riconosciuto, al di là della goliardia del personaggio con il passamontagna, nel suo valore artistico che era molto alto».

Ci spiegheresti qual è il legame tra il gruppo hip-hop Dogo Gang ed Il Presidente? Perché era stato “eletto” a Presidente proprio lui, che per altro non rappresentava il rap e l’hip-hop?

«È uscita recentemente un’intervista su YouTube, nel canale Spazio Penombre, dove Francone spiega bene questa cosa. Però il link era Vincenzo. Francone comunque era uno storico di Via Anfossi: è stato una leggenda urbana e il suo collegamento con la Dogo Gang era Vincenzo da Via Anfossi».

Parlando di Dogo Gang è obbligatorio chiederti cosa ne pensi della reunion dei Club Dogo, che è stato l’evento che ha sconvolto la scena rap italiana quest’anno.
Voi della Dogo Gang in qualche modo siete stati coinvolti? È stata una reunion solo dedicata alla produzione di un disco ed un tour o se c’è proprio un legame di amicizia che è tornato fuori, coinvolgendo magari anche altri? Sarete presenti a San Siro?

«Ma guarda che in realtà il legame di amicizia non se n’è mai andato, da parte di nessuno di noi! Semplicemente si è interrotto più quello dal punto di vista discografico. Noi in realtà eravamo già stati coinvolti in quello che era l’album di Don Joe, con il pezzo insieme. Per questi live che erano concentrati su Club Dogo in realtà no. Io personalmente da fan dei Club Dogo prima che amico, sono contento soprattutto perché non è un’operazione discografica buttata lì. Ma hanno fatto uscire un disco che è un disco Club Dogo al 100% e che personalmente lo trovo anche migliore di alcuni dei dischi precedenti dei Club Dogo! Nemmeno io avevo delle aspettative così alte, né di quello che sarebbe stato il nuovo album, nemmeno della qualità del live e soprattutto dei numeri che ha fatto».

Ti sai spiegare per quale motivo, quando i Club Dogo facevano Vile Denaro o dischi di quel periodo, riempivano locali da 500 persone, mentre adesso fanno 10 Forum e un San Siro sold-out? Secondo te, qual è il motivo per il quale la gente sa riconoscere questi artisti solo dopo così tanto tempo?

«In realtà non lo so. Infatti prima dicevo che non me lo aspettavo! Questi numeri li fai se sei riuscito ad attrarre tutte le nuove generazioni che nel frattempo sono venute. Io avevo perso completamente questo passaggio, ovvero il fatto che avessero un seguito così ampio anche tra ragazzi più giovani, anche un po’ per una sfiducia malriposta (sono sincero: errore mio), un pregiudizio, nei confronti della Gen Z. Pensavo che essendo un po’ la generazione legata al presente fosse incapace di recuperare il repertorio. In realtà in tutti questi anni, tutto ciò c’è stato. Anche perché poi sono andato a vedere una data. A quel concerto lì non c’erano solo i vecchi nostalgici come me, ma c’era anche un’ampissima fetta di pubblico che probabilmente nemmeno si ricorda i primi Club Dogo, che al tempo erano dei bambini o dei neonati. È evidente che questa gente qui, oltre ascoltare Guè in questi anni, aveva recuperato anche tutta la carriera pregressa di Guè».

Ci sono secondo te degli artisti oggi che magari vengono sottovalutati o che magari non riescono a fare chissà quali vendite, che invece tra 10-15 anni riusciranno ad avere le loro soddisfazioni, quali fare un Forum o uno Stadio o roba del genere? C’è qualcuno che segui, sul quale potresti puntare?

«Non lo so questo. Però ti posso dire un’altra cosa, anche se non è una risposta diretta alla tua domanda. Tu non mi hai fatto una domanda su “chi sono gli eredi della Dogo Gang”. L’unica roba, in mezzo a tanti cloni venuti male (come dico nel testo del pezzo con Don Joe), che mi ha un po’ fatto un po’ riassaporare lo spirito veramente autentico, genuino è stato il disco della Lovegang. Forse è l’unica realtà che sento in qualche modo affine. Perché soprattutto ci vedo un legame vero di fondo, una genuinità, una autenticità, una verità. Per me quello è stato uno dei… anzi, forse il disco che ho più apprezzato nello scorso anno! Poi chiaramente è qualcosa di un po’ diverso. Il paragone andrebbe fatto Dogo Gang-Lovegang, piuttosto che con i Club Dogo, perché al loro interno ci sono tanti artisti. Non sapendo rispondere direttamente alla tua domanda, me ne vengo fuori un po’ così!»

Cambiamo argomento: l’ultima volta avevamo parlato molto di Ultras, di stadi e ho visto che eri molto sul pezzo, quindi volevo chiederti una cosa. Negli ultimi anni, diciamo dopo il Covid, c’è stato un grande ritorno delle persone negli stadi, così come nei concerti, d’altra parte. Ci sono numeri di vendita, che prima non si riuscivano più a raggiungere da anni. Anche se, se parliamo di stadi, questo aumento va in contemporanea con il calo degli Ultras e delle tifoserie organizzate in genere. Secondo te qual è la ragione? Gli stadi si riempiono con le famiglie, come si auspicavano i tanti detrattori del mondo Ultras?

«Quella è in parte la risposta. In realtà una lettura più ampia del fenomeno ti fa vedere che ci sono diversi fattori. Un po’ le famiglie allo stadio, un po’ di riflesso il fatto che i costi dei biglietti sono sempre meno accessibili (forse sì, ci saranno sicuramente dei bonus bambini-famiglie), il fatto che comunque è vero c’è stato un periodo in cui lo stadio magari era terra di nessuno. I realtà però adesso veramente non si può più fare un cazzo. Quindi diventa anche un luogo in cui il divertimento è sempre meno permesso (e non intendo dire avere la possibilità di andare lì e picchiarsi e spaccare i seggiolini!), ma diventa sempre più limitato il fatto di essere liberi, anche di fumare, per dire! O i usare dei fumogeni, dei megafoni, dei tamburi… sta diventando un esperienza sempre più “da cinema”. In realtà se vai a vedere per bene, un po’ il fenomeno ultras sta scomparendo dalle categorie principali, ma nelle categorie inferiori si sta diffondendo in maniera capillare. Roba che ai miei tempi non esisteva. Adesso è sempre più diffuso che squadre anche di categorie non professionistiche abbiano la loro tifoseria Ultras al 100% al loro seguito. Perché chiaramente hai uno spazio di manovra maggiore e non devi pagare 100€ per vedere uno spettacolo scadente (perché parliamoci chiaro, la Serie A non è nemmeno più quella di fine anni ’90!). In realtà quella cosa lì è veramente insito nell’essere umano, dai tempi dei Gladiatori, della domenica di trovare una valvola di sfogo che quindi, se non ti è più permesso in serie A, la vai a cercare da altre parti, dove puoi vivere un po’ quel divertimento. Tanto uno degli slogan degli Ultras è sempre stato “A noi della partita non ce ne frega un cazzo” e comunque magari nel tuo campo di provincia trovi anche il modo di ritrovare quel campanilismo che anch’esso è sempre stata una fonte di tifo. Non è che quella cosa lì è scomparsa, ma sta andando da altre parti. Adesso va molto anche questa cosa del calcio popolare. E onestamente guardo con una certa simpatia la cosa. Mi piace questo fenomeno. Colgo l’occasione per dire che ormai i prezzi delle partite di calcio e aggiungo dei concerti, stanno toccando delle vette che sono davvero qualcosa di immorale e insostenibile».

Ted Bee

Ma parliamo di concerti: per quale motivo? Perché da un anno all’altro il prezzo di certi concerti è raddoppiato?

«Ho provato a parlarne anche in ambito discografico e la risposta che mi hanno dato è che i soldi oggi non si fanno più con la discografia e bisogna andare a recuperarli da qualche altra parte. Cazzo, però è una risposta che non mi convince! Il declino della discografia c’è da 20 anni almeno. Quando io ho cominciato ad ascoltare la musica, c’era già eMule, per dire. Invece questa “esplosione” è avvenuta in un’epoca post Covid, se ci pensi. Come se si stesse cercando di andare a recuperare tutto quello che era stato perduto in quei due anni, che poi era anche meno, se vai a vedere. Secondo me, in un primo periodo aveva anche senso, adesso iniziano però a rompere i coglioni! Io 50€ per andare a vedere Action Bronson al Magnolia non glieli do per una questione di principio! Soprattutto perché tu vai in questi contesti dove la qualità è sempre una merda: perché è come nel calcio, è molto simile. Più i posti sono grandi, meno ci sono i servizi igienici. Non sono puttanate, vanno considerate! Io se ti do 100€ per vedere qualcosa, mi aspetto un servizio di un certo livello. Non mi aspetto un panino di merda da 100 grammi che mi fai pagare 8€, di fare 3 ore di coda per prendere una birra annacquata, di fare la coda per pisciare in un cesso chimico, capito? Mi aspetto un servizio di contorno che valga quella cifra. Purtroppo qui in Italia invece si cerca di grattare da tutte le parti in tipico stile italiano. Addirittura vai in estate in questi pseudo-festival (che festival non sono), che ti inculano anche con la logica dei token, che ci sono solo in Italia, dove tu devi sempre lasciargli qualche euro di “mancia”. Poi magari io ho il culo che chiamo qualcuno e mi fa entrare in accredito con il braccialetto, ma penso a uno che se deve spendere 50€ solo per entrare e quello è solo la metà di quello che deve spendere poi per il resto della serata, soltanto per sopravvivere. E poi il servizio è pure un merda, si sente male, in posti che non sono attrezzati… Va bene, il prezzo è alto di per sé? Almeno cercate di alzare il livello della qualità. Questo, perdonami, ma è un tema che mi sta molto a cuore, quindi mi scaldo molto! Sai qual è la grande differenza tra il pubblico del calcio e il pubblico musicale? Che il pubblico del calcio, paradossalmente è più educato all’experience. Cosa intendo dire: io tifo il Milan? Se ho pagato 80€ per vedere il Milan, se lo spettacolo non mi piace, io fischio e ti insulto e questo non vuol dire che smetto di essere tifoso del Milan. Invece nella musica non accade. A un fan gli va bene qualsiasi cosa. Io personalmente avrei voluto farlo quando sono andato a spendere 80€ per 50 Cent e me lo sono guardato suonare 45 minuti al Forum D’Assago con la voce sotto e uno spettacolo indegno. O come quelli che sono andati a vedere Kanye West per vederlo ballare. Lì sarebbe stato bello che fosse uscito tra i fischi. Perché lo spettacolo, non valeva il prezzo del biglietto che ho pagato per essere lì. Io lavoro, guadagno, pago e pretendo, come dicono a Milano. Sei d’accordo?»

Sono d’accordissimo! La cosa di cui non mi capacito è che continuino a fare questi tipi di eventi con prezzi altissimi e servizi ignobili, ma fanno comunque sold-out. Io sono stato lo scorso anno a Milano due volte all’Ippodromo, entrambi gli eventi sold-out. Buoni gli eventi, ma organizzazione da rivedere, appunto con bottigliette d’acqua a prezzi folli, pagabili solo con token e tutte le pecche di cui parlavi. Però erano sold-out, quindi mi viene da dire, forse hanno ragione loro?

«Ma infatti, io leggevo un articolo di Damir Ivic che diceva, sai come farai a invertire la tendenza? Quando la gente smetterà di comprare i biglietti per andare a questi eventi. E aveva ragione. È vero. Bisogna fare la rivoluzione. È una rivoluzione non violenta, ma che fai così».

Più che altro, c’è sempre più discrepanza tra i grandi eventi “mainstream” che costano 100€ e gli eventi underground a 5€ che secondo me fanno fatica a sostenere le spese. Ad esempio, sono stato qualche settimana fa a Bologna a sentire Crimeapple, che ha fatto un ottimo spettacolo offerto per un prezzo irrisorio: considerando che viene dagli Stati Uniti, secondo me con gli incassi dei biglietti ha fatto fatica a pagarsi il volo aereo! Al contrario, vai a vedere un artista qualsiasi, spinto da un’etichetta, all’interno di un festival estivo e ti costa 80€!

«È vero, hai ragione! E aggiungo, manca sempre di più la fascia di mezzo. Anche a Milano sono rimasti pochissimi locali di questo standard. Mi viene in mente il Biko. Il Biko ha una buona programmazione per essere quella tipologia di locale che fa 200-300 persone. Io mi ricordo 10-15 anni fa, c’erano tante situazioni così, di musica dal vivo. Oggi ci sono solo quelle gigantesche. Ed è paradossale. Io sono cresciuto in un periodo in cui il rap era una scena microscopica, ma c’erano infinite possibilità di vederlo dal vivo. Oggi che invece è qualcosa di mastodontico, sembra che tu per vedere uno show rap debba andare per forza al Forum D’Assago o a San Siro a questo punto! E ci sono anche molte meno serate. Mi vengono in mente pochi posti: il Biko, il Barrio’s… Poca roba ed è assolutamente un peccato. Però ripeto, da questo punto di vista, l’audience ha un potere! È lei che decide il mercato. Bisognerebbe cominciare a mandare a fare in culo questi eventi giganteschi e ricominciare a supportare le realtà più underground, come quella di cui parlavi tu prima. Questa è l’autoregolamentazione del mercato, c’è poco da fare. Tu dici, perché continuano a fare dei sold-out? Perché non comando io. Quando tutti ci renderemo conto che è un problema, magari qualcosa cambierà. Per adesso andiamo avanti a spendere tutti questi soldi per poi creare delle marginalità che sono assurde! Io sono stato a Glastonbury, sono stato al Primavera Sound… Io gliene do volentieri 200 di euro, se poi vado in giro con il mio cazzo di braccialetto, pago e non faccio le code, ho una scelta di ristoranti all’interno e non il paninaro della varesina che mi gira la salamella coi crauti, capito? L’esperienza la pago: sono disposto a darti il doppio se mi dai il livello di qualità».

Obiettivamente hai ragione. Domanda classica di conclusione: cosa dobbiamo aspettarci dal tuo futuro prossimo? Hai dei concerti in programma o un tour?

«Absolutly yes! Tra l’altro sono in perenne aggiunta di date, quindi consiglio di seguirmi, principalmente su Instagram dove segnalo tutto. Sarò il 17 maggio al BundaLinda di Brugherio (appunto, uno di quei posti che organizza cose fighe, come dicevamo prima!) poi ce ne saranno sicuramente altre che stiamo pianificando. Poi come ti dicevo, adesso mi sto buttando in questa “carriera/esperienza” da A&R/direttore artistico, dove il mio obbiettivo non è chiaramente trovare il nuovo Sfera Ebbasta, ma neanche trovare degli epigoni miei. Appunto se qualcuno che legge questa intervista vuole mandarmi della roba, io l’ascolto con molto piacere! Vorrei incontrare dei giovani, quindi talenti emergenti, che hanno già una loro visione artistica. Mi piacerebbe aiutare chi ha già una visione artistica, forte della mia esperienza, se posso dare dei consigli, per realizzare la loro visione nel migliore dei modi. Questo è l’obbiettivo che mi sto dando in questo ruolo all’interno di questa etichetta. È ovvio che a me interessano un certo tipo di messaggi, un certo tipo di prodotti, ma quelle cose vanno da sé. Però ripeto, non sto cercando The Young Ted Bee».

Grazie mille per la disponibilità e il supporto che ci offri sempre.

«Sincero, voi siete una delle mie pagine preferite. Alcune le hatero di brutto, alcune se potessero non esistere, guarda… Mi piacete voi e poche altre, perché cercate di andare un po’ più sotto, non di rimanere nella surface del cazzo. Voi fate alcuni post, che rispecchiano la tipologia ci content che cerco io, che sono un cultore del rap. Poi magari c’è il gossip che fa 200 miliardi di visualizzazioni, ma secondo me, se uno ha la testa hip-hop come me, con certi post che fate voi impazzisce!»

Grazie mille di tutto, a presto!