Con La Vita Segreta Delle Città, Murubutu torna con un concept album, uscito per Django Music e Glory Hole Records, che esplora le sfumature più profonde delle città, dal sogno di riscatto alla solitudine più alienante. Un viaggio che abbraccia tanto le realtà urbane concrete quanto quelle immaginarie, attraverso una lente che intreccia riferimenti letterari e musicali.
Abbiamo avuto il piacere di parlarne con lui, riuscendo ad approfondire temi cruciali come la responsabilità sociale degli artisti e l’importanza della lettura come strumento di liberazione. L’intervista ha messo in luce anche riflessioni sulla società contemporanea, arricchite da rimandi letterari come Fahrenheit 451 di Bradbury, che da sempre contraddistinguono i suoi lavori. L’album si distingue anche per l’attenzione alla produzione e per la scelta degli ospiti, tra cui spiccano nomi illustri come Danno – simbolo della scena e una delle poche penne in grado di performare su determinati temi – e Alborosie, che per Murubutu è stato un grandissimo onore averlo nel disco.
In un momento sospeso, tra il rumore dei treni in partenza e l’attesa che dilatava il tempo, Murubutu che era in chiamata da una stazione, si è concesso a noi, riuscendo a fermarsi per un attimo, proprio mentre la città continuava a correre attorno. Un sincero ringraziamento a lui per aver reso possibile questo incontro. Godetevi l’intervista.
La nostra intervista a Murubutu, fuori con La Vita Segreta Delle Città
La Vita Segreta Delle Città è un concept album che esplora la città sotto diverse prospettive. La città diventa il filo conduttore delle storie raccontate nel disco. Perché il tema della città? Cosa ti ha ispirato a sceglierlo?
«Vengo definito spesso un rapper bucolico e quindi volevo un’ambientazione urbana che l’esprimesse. In realtà ho già trattato la città in altri brani, però per me il contesto è molto importante perché scrivendo praticamente solo degli storytelling, il posto in cui vengono ambientati per me è fondamentale. Il contesto stesso è un personaggio dei miei racconti, e quindi volevo le città, le metropoli perché sono dei grandi nidi di storie che contengono tantissime storie e biografie tutte insieme, alcune di queste veramente molto esemplari, anche per parlare del rapporto dialettico che c’è tra l’individuo e il suo contesto spazio temporale, cioè il tempo che passa, in cui si sviluppa, in cui cresce. E anche l’ambiente, ovviamente. E quindi le città sono in realtà il primo elemento non naturale che utilizzo come concept, che però per questo mi affascinava molto soprattutto nella loro vita segreta»
In un pezzo come Grande Città c’è il racconto di quel conflitto emotivo eterno tra andare e restare, tra grande città e piccolo centro. In quel brano, però, la grande città rappresenta sì il sogno da inseguire, ma anche un luogo di disillusione, cioè la città che diventa quasi la metafora di un sogno che può infrangersi. Come l’hai interpretata nella tua vita questa dicotomia?
«Sì, io in realtà non l’ho vissuta pienamente perché vivo a Reggio Emilia, ma ho Bologna molto vicino. Bologna non è una grande città, ma a volte ne ha le caratteristiche, perché dal punto di vista culturale è veramente veramente molto ricca, e quindi offre tantissime opportunità. Però io l’ho sentita raccontare a tanti amici, soprattutto del Sud, che cercavano, per l’appunto, più possibilità e quindi guardavano a Milano o altre città, anche all’estero, come una possibilità di apertura per il futuro, e però nello stesso tempo soffrivano tantissimo. Poi io faccio l’insegnante per cui parlo spesso con tanti colleghi che vengono dal sud. Allo stesso tempo, dicevo, pativano tantissimo la mancanza della terra natìa, delle origini, anche degli amori lasciati al paese. E quindi questa è una dialettica continua, non è che ha una soluzione. Poi io nel brano ovviamente trovo una soluzione romanzata mia, però non è che ci sia qualcosa di giusto o di sbagliato in entrambe le polarità»
A tal proposito mi è venuto in mente che di recente a Sanremo c’è stato Brunori SAS e si è fatto, o l’hanno reso, un po’ portavoce del Sud, della provincia. E nelle interviste diceva che sebbene oggi si cerchi di andare a Milano per le opportunità che offre, in verità dai contesti periferici, appunto per la lontananza dal centro, possono arrivare cose nuove, diverse. Tu come la pensi?
«Eh sì, perché lui è di Joggi, in Calabria, l’ho conosciuto. Sono completamente d’accordo, nel senso che è chiaro che nella grande città c’è più omologazione e invece nel piccolo centro, che è un po’ al di fuori delle mode, ma anche di quelli che sono i processi di flusso, in realtà si possono trovare delle formule originali, che non nascono per forza né dal benessere né dalla serenità. Però a volte la creatività nasce proprio dal dolore. Infatti, ti rispondo con un’altra citazione di Brunori che disse che se lui non si fosse annoiato così tanto in questo piccolo centro della Calabria non avrebbe scritto così tante canzoni»
La narrazione odierna delle grandi città è quella di un contesto frenetico, che provoca alienazione. In Flaneur fai tua quest’idea del camminare come atto rivoluzionario, di resistenza al ritmo imposto dalla metropoli. La città che non è più solo un luogo di mera velocità e produttività, ma anche di riflessione. È più una considerazione che una domanda, se la sperimenti spesso questa camminata…
«Beh, certo, anche perché io ho uno scarsissimo senso dell’orientamento, per cui quando viaggio, quando visito, spesso mi capita di perdermi, soprattutto all’estero. Però è una cosa che secondo me a volte ti porta a vedere degli aspetti delle città meno turistici e quindi anche più interessanti. Mi piace tantissimo vedere i colori e le linee della quotidianità nella città, cioè quando la città riesce a parlare veramente a sé stessa e non a quelli che vengono da fuori per vederne solo un aspetto. E quindi sì, secondo me il flaneur non solo è una figura poetica, ma proprio una figura rivoluzionaria, nel senso che non ha la fretta e non ha gli obiettivi che gli impongono in un qualche modo la mercificazione capitalistica delle città»
Ora invece parliamo di censura e libertà di espressione, perché in 451 con Danno hai fatto riferimento al romanzo distopico Fahrenheit 451, in cui i pompieri incendiano i libri in quella che è un’operazione di controllo, di annullamento del pensiero critico dell’individuo. Ti faccio tre domande: come è nata la la collaborazione con Danno, cioè l’idea di coinvolgerlo? E poi, come secondo te oggi stiamo vivendo, e se la stiamo vivendo, una situazione come quella descritta nel libro? E chi sono i pompieri della nostra epoca?
«Con Danno, che io stimo tantissimo, in realtà volevo collaborarci da tanto tempo, mi serviva assolutamente una penna in grado di performare su un tema del genere, che comunque non è per tutti. Lui era ideale, era l’ideale, ma soprattutto consapevole che ha fatto un album come Artificial Kid, che comunque ha dei temi e delle sonorità comuni. Su quello che sono i pompieri della nostra epoca, paradossalmente non sono delle persone che bruciano direttamente i libri, ma sono persone che li vanificano attraverso una cultura della superficialità, della mancanza di contenuti. E quindi il libro non viene vietato, però viene sostituito con altre forme di fruizione culturale molto più blanda, come possono essere le serie per esempio, o i videogiochi, o i programmi di un certo tipo o l’utilizzo compulsivo e frenetico dei social, quando invece il libro garantisce ancora un certo punto di vista, l’approfondimento, la gradualità, la ricerca e soprattutto l’utilizzo dell’immaginazione»
Quindi per te la la lettura rimane ancora quell’antidoto per liberarsi da una condizione di ignoranza e repressione.
«Sì, assolutamente sì, soprattutto certi tipi di lettura»
E invece la musica, o l’arte, come possono svolgere un ruolo di liberazione? Cioè credi che gli artisti abbiano una responsabilità culturale, e se vogliamo politica e sociale?
«Allora sì, l’arte ha una funzione catartica in senso aristotelico, secondo me, perché grazie all’immedesimazione nei temi e negli oggetti dell’arte, nel romanzo soprattutto, ma anche nella pittura, e a maggior ragione nello storytelling dove c’è l’interazione tra musica, che è l’aspetto emozionale, e l’aspetto narrativo, che è quello più identificativo, secondo me c’è veramente una capacità catartica di liberazione dalle passioni, dal dolore eccetera eccetera. Per la seconda domanda, sì, l’artista secondo me ha una responsabilità che non è che si deve assumere obbligatoriamente, perché è giusto che l’artista rappresenti anche il divertimento in senso etimologico, cioè nel guardare e andare altrove, non per forza riflettere sul presente, però può avere questo impegno, questa possibilità, questa responsabilità e secondo me è giusto che molti artisti se l’assumano. L’arte soprattutto parla ai più giovani, e ai giovanissimi in particolare, e quindi può avere un ruolo educativo e formativo e sarebbe un peccato non cogliere questa occasione»
A tal proposito un esempio nel disco è il tema dell’emigrazione, che hai trattato raccontando la storia di Yaguine e Fodè in Minuscola. Ecco, anche qui faccio una considerazione più che una domanda. Quel pezzo mi è piaciuto particolarmente perché emerge la brutalità dell’episodio, che è ovviamente la morte dei ragazzi, che però sei riuscito a raccontare con delicatezza, in modo quasi fiabesco, e mi ha ricordato un po’ Io capitano di Matteo Garrone. Come ti ci sei approcciato?
«Solitamente escludo questi brani qua, soprattutto quando c’è un tema che mi commuove. In questo caso è una storia molto commovente, anche perché è molto simbolica, non è solo una storia di migrazione, è proprio una storia di emancipazione, una storia molto simbolica di ricerca di dignità oltre che di ricerca di sopravvivenza. E quindi mi sono sentito di raccontarla, soprattutto su quella base lì che ha un po’ di fiabesco effettivamente, come se fosse un’azione epica, cioè due ragazzi che però ne rappresentano tantissimi»
Sì, ma perché oltre alla tragicità della morte, la cosa che colpisce è che viene infranta una speranza secondo me.
«Esatto, e soprattutto secondo me una cosa che colpisce è che la loro azione era quasi sicuramente destinata al fallimento, non solo riuscire ad arrivare lì, ma anche riuscire a farsi ricevere. E quindi è questo eroismo di base e questa utopia di quest’eroismo innocente, e in qualche modo ingenuo, che secondo me commuove»
Tu sei sempre stato noto, o raccontato, per l’attenzione che poni nei testi, nella profondità dei contenuti, però ovviamente c’è una cura anche nel suono e anche in questo album abbiamo influenze jazz e elementi classici del rap come anche gli scratch. Come fai a bilanciare questa dimensione lirica con quella sonora, cioè qual è processo creativo? Ti affidi al produttore, proponi tu..
«Lavoro in modo diverso. A volte mi faccio mandare la classica cartella, e poi faccio la scelta in base alle sensazioni o ai contesti e le atmosfere che mi servono per rendere un particolare testo, oppure a volte lavoro insieme al produttore, nel senso che gli chiedo di sviluppare determinati sonorità apposta per me. E mi è capitato anche di andare in studio, e mi è capitato, come avrai sentito, di coinvolgere anche dei musicisti. Quindi insomma, a volte quando mi arriva una produzione che mi piace poi cerco anche io di curvarla, in un certo senso, chiedendo atmosfere più particolari, inserendo musicisti e dando quindi un valore aggiunto che prima non c’era»
Abbiamo citato il Danno, però ci sono altre collaborazioni illustri come Alborosie, Davide Shorty, Erica Mou. Come sono nate queste collaborazioni?
«Io sono un grande fan di Alborosie, quindi averlo nel disco per me è un grandissimo onore, oltretutto secondo me lui ha reso tantissimo su quella produzione. Su quella produzione in particolare, anche se non è una produzione reggae. Erica Mou, grandissima cantautrice, è una donna che stimo moltissimo dal punto di vista culturale, l’unica che riesce a fare contemporaneamente un disco, un libro e uno spettacolo teatrale. E penso che ce ne siano poche, e mi piace molto la sua voce e quel ritornello è secondo me proprio esatto per le sue corde. Shorty lo conosco da tempo, e per un pezzo su Palermo mi serviva un palermitano e lui interpreta quell’anima soul in modo eccellente. E ovviamente, come ti ho detto, il Danno, che penso sia l’unico featuring rap, è un simbolo oltre che un grande rapper e quindi per me è davvero un piacere averlo all’interno dell’album»
Grazie a Murubutu per questa intervista. L’album La Vita Segreta Delle Città è fuori ovunque: