Non è facile rassegnarsi alla caduta di un eroe, ma è anche vero che non ci si può sottrarre alla realtà dei fatti. Dov’è finito il Kanye West che conoscevamo? Abbiamo provato a fare un sunto della complessa situazione.
A chi osserva gli eventi dall’esterno, Kanye West sta dando davvero una bella gatta da pelare: megalomania e sparate pseudo-rivoluzionarie a parte, il nocciolo del controsenso vivente – rappresentato dall’ormai fu miglior prodotto della scena hip-hop dell’ultima generazione – pare annodarsi attorno alla questione razziale.
Il razzismo, già. Un argomento che negli Stati Uniti d’America è sempre, e comprensibilmente, un argomento attuale e da trattare con tutta la delicatezza e gli accorgimenti che l’ancora sanguinolenta piaga merita nella patria dello schiavismo, ormai abolito per decreto ma mai davvero superato a livello sociale, nonostante gli enormi passi avanti compiuti.
Che Kanye West soffra di una qualsivoglia forma di disturbo mentale, è anch’esso oggetto di dibattito, tra chi sostiene che il rapper di Chicago venga barbaramente dato in pasto ai media dalle stesse persone che dovrebbero tutelare la sua immagine, e chi invece vede in un bipolarismo recitato alla perfezione nient’altro che l’ennesimo scaltro trucco orchestrato dalla star di turno per rinvigorire una carriera che soffre d’un ristagno più ideologico che artistico, ormai costretta alla spersonalizzazione in una comunità che sta perdendo uno dopo l’altro i suoi oratori, vittime dell’intrattenimento spicciolo.
Kanye si era presentato sulle scene, non dimentichiamolo, nelle vesti del conscious rapper del nuovo millennio: oltre allo zainetto sulle spalle e ai cardigan di pregiata fattura, la stessa musica dei primi due album (gli indimenticabili The College Dropout, datato 2004, e Late Registration, uscito nel 2005) respirava l’aria di una rivoluzione che avrebbe visto i rapper abbandonare le armi e la violenza del ghetto, per lanciarsi a piè pari in un lessico che avrebbe dovuto illuminare le menti degli ascoltatori, soprattutto i più giovani.
La verità, ahinoi, è però una e truculenta: quel Kanye West non esiste più. In questi giorni più che mai, specie in seguito al ripugnante endorsement del nostro nei confronti di Donald Trump, fiumi d’inchiostro si stanno sprecando nel (finora vano) tentativo di trovare un filo conduttore che leghi il vecchio Kanye a quello nuovo, cerchiare in poche parole sulla timeline della sua vita il momento esatto della perdizione.
Un’ipotesi molto accreditata ma al contempo troppo complessa da sviscerare è quella dell’improvvisa morte della madre del rapper, Donda, avvenuta nel novembre 2007 e dalla quale West non è mai riuscito a riprendersi.
È, in effetti, da quel momento che l’ex protégé di Jay-Z alla Def Jam ha cominciato a vagabondare a briglie sciolte tra le stanze più buie dell’alienazione, perdendo in modo progressivo e inarrestabile ogni traccia di umiltà, dignità e legame con la cultura che (in teoria) avrebbe dovuto rappresentare, per trasformarsi in una triste macchietta d’avanspettacolo, verso la quale le risate del pubblico attonito hanno ormai lasciato spazio a feroci fischi di disapprovazione.
Se non stessimo ancora parlando di uno dei produttori più rilevanti del panorama hip-hop a stelle e strisce, è certo che non ci dilungheremmo ad oltranza, e ci sarebbe molto più facile cassare i suoi assurdi deliri sugli argomenti più disparati come la forma espressiva adeguata a chi necessita di aiuto medico: per fare un esempio schietto, la dialettica di Azealia Banks (la cui fama s’è arrestata, per diversi motivi, dopo l’uscita del singolo 212, sei anni fa) non si discosta molto da quella propugnata da Kanye, ma come appunto accennato tra parentesi non stiamo più parlando di un artista il cui audience rappresenta una fetta consistente del mercato che conta, e TV, radio e giornali non sono costrette (né ne hanno la volontà) a fare da recipiente alle parole di tutti i matti che vogliono fare musica; Kanye West, invece, è uno che fa ancora parte del grosso giro, ed è quasi un dovere per la critica decodificarne il fenomeno. O, almeno, provarci.
Il problema di fondo, tuttavia, è che ultimamente Kanye West è andato a stimolare i nervi più sensibili della massa, propagandando senza vergogna il proprio sostegno alle politiche demagogiche e distruttive di Donald Trump, il quarantacinquesimo Presidenti degli USA che nemmeno buona parte della destra conservatrice che rappresenta sente di voler celebrare quale grande statista.
Tralasciando ciò che Trump sta perpetrando in fatto di politica economica ed estera, è il suo atteggiamento nei confronti dei neri e delle tantissime minoranze che abitano il Paese di cui è a capo a preoccupare, non solo democratici e politologi, ma in primis gli stessi cittadini americani (i più ragionevoli, s’intende), che mai vorrebbero – a ragione – fare un quarantennale passo indietro e ristabilire il clima di tensione che si respirava nei caotici anni sessanta.
Eppure, un ritorno alla repressione e al barbaro modus vivendi di quell’epoca sta rapidamente tornando in voga, poiché Donald Trump – dal suo trono dorato e nelle capitali vesti in cui si trova – strizza quotidianamente l’occhio ai nostalgici dell’America segregazionista, rurale e troglodita, che forse non ha mai nemmeno digerito l’estensione del suffragio ai loro fratelli dalla pelle nera.
È tragico, quindi, dipingere un simile quadretto, e rendersi conto che Kanye West approva indirettamente tutto questo, mostrandosi sostenitore – e con vergognosa reverenza – di un improvvisato politicante di quart’ordine che sta distruggendo tutto ciò per cui il suo stesso padre (Ray West, ex Black Panther) ha donato sangue e sudore.
Il recente incontro tra Kanye e Trump nello Studio Ovale della Casa Bianca, ripreso dai principali network del mondo, suscita un tale disgusto da sperare sul serio che il rapper non creda davvero in ciò che fa, che si tratti solo di un troll di cattivo gusto e le sue idee non siano così confuse; anche in quest’ultimo caso, comunque, le sue orripilanti azioni e parole di compiacimento per il nemico della pace etnica americana non troverebbero giustificazioni plausibili, benché meno se fossero al servizio della pubblicità.
Sono tantissimi ad essere rimasti oltremodo esterrefatti, inoltre, nel vedere l’ultimo, obbrobrioso spettacolo offerto da West al programma Saturday Night Live, durante il quale l’attuale marito di Kim Kardashian ha sfoggiato il cappellino rosso recante l’acronimo MAGA (“Make America Great Again”, lo slogan – riciclato, oltre che poco acuto – utilizzato da Trump per la sua pomposa campagna elettorale) insieme ad una felpa in supporto di Colin Kaepernick, l’ormai ex giocatore di football la cui protesta pacifica contro l’attuale Governo Trump l’ha visto perdere il posto di quarterback titolare (con annesso contratto milionario) presso i San Francisco 49ers.
La domanda, quindi, è di facile intuizione: quanto oltre Kanye West si spingerà? Appurato da innumerevoli esempi che non esista un categorico limite al peggio, è lecito domandarsi ancora quanti fans Kanye sarà disposto a perdere prima di darsi una regolata, perché lo scandalo vende fino ad un certo punto, ma non esiste alcun precedente che dimostri la possibilità di ciondolare tra popolarità ed impopolarità in eterno, ed è indubbio che la totale assenza di pudore nell’autore di Through the Wire gli chiederà – prima o poi – un conto piuttosto salato da pagare.
Detto questo, per carità, ogni cittadino del mondo libero ha diritto di esprimere la sua opinione, e West non rappresenta un’eccezione a questo sacrosanto dogma; ciò che lascia davvero perplessi e scoraggiati è la sua fiducia cieca verso un uomo che, oltre a non aver fatto nulla per meritarsi la sopracitata stima, lo sta palesemente sfruttando per magnetizzare il consenso, un inquietante particolare che non è sfuggito a chi ha avuto la iattura di vederlo a colloquio con Trump a Washington, durante il quale “Kanye ha fatto nient’altro che la triste figura del minstrel” (parole di Don Lemon, giornalista afroamericano della CNN).
Se invece, in ultima istanza, dovessimo trovarci di fronte ad un uomo malato, il cui disturbo bipolare (concept, tra l’altro, dell’ultimo disco, Ye) gli sta sul serio compromettendo le più elementari facoltà di giudizio, allora ci appelliamo al buon cuore dei (pochi) samaritani che ancora gli gravitano attorno, tra i quali già sappiamo di non poter menzionare la moglie Kim, funzionale al rinsavimento del marito quanto uno spacciatore alle prese con un povero Cristo che stia cercando di uscire dal tunnel della droga.
Nessuno inneggi al silenzio di Kanye West per mano di un qualunque evento sovversivo, comunque: ci sono stati personaggi controversi prima di lui, e continueranno ad esserci dopo di lui. Se vorrà continuare a parlare, sarà libero di farlo, considerato anche il fatto che tutto il suo pontificare non sarà mai strumentale ad un eventuale secondo mandato di Trump. Ma non è questo il punto: ciò che davvero sta a cuore a chi ama l’hip-hop e l’arte musicale in generale, è che un individuo di straordinario talento come Kanye – che tanto ha dato e tanto sta dando al buon nome della musica – non inquini la sua pregiata eredità discografica con esternazioni offstage che nulla, tra l’altro, hanno a che fare con il grande musicista che sappiamo in cuor nostro di conoscere.