Iodegradabile, ossia Willie Peyote contro tutte le semplificazioni.
Il termine recensione non mi è mai piaciuto, perché ha in sé l’idea della censura e del dire, quindi, cosa va bene e cosa no, e questa è l’ultima delle mie intenzioni se decido di parlare di un disco. Se si analizza un album, il termine più giusto sarebbe riflessione, perché effettivamente si raccolgono in qualche riga i propri pensieri, spunti, pareri e ricordi. E, infatti, questa mia riflessione su Iodegradabile, il nuovo lavoro discografico di Willie Peyote, parte dal primo ricordo che questo disco mi ha tirato fuori e che, paradossalmente, riporta a un altro album del rapper torinese.
Era il 2017 e, da fan di Willie – con il quale abbiamo parlato alla presentazione del disco -, mi gettai su Sindrome di Toret non appena uscì, trovando al suo interno una sorpresa interessante. In 7 Miliardi – che poi sarebbe diventato il titolo di un’altra hit di cui forse avete sentito parlare – c’era un featuring particolare, perché non era di un musicista, ma di un comico: Giorgio Montanini. Lì per lì rimasi sorpreso, restando colpito dal monologo dello stand-up comedian marchigiano, ma nulla di più. Circa un anno dopo, per caso, quella per la stand-up comedy – che prima quasi ignoravo – diventò un’ossessione e, con essa, Giorgio Montanini divenne – ed è tuttora – un personaggio culto, un artista culto, per il quale l’ammirazione è tale da spingermi a spulciare tra interviste e materiale sparso. E non è un caso che, come se si chiudesse un cerchio, la descrizione migliore di Iodegradabile l’abbia data involontariamente proprio Giorgio Montanini.
“Un artista politicamente corretto è un ossimoro. L’artista deve essere rivoluzionario sempre: analizza la società secondo un punto di vista personale. E se dice le stesse cose che dice mio zio al bar e se le tue idee sono in linea con le idee classiche di una società, perché sali sul palco?”
Sentire questa definizione mette in difficoltà, perché ci costringe inevitabilmente a ridurre il campo di quelli che reputiamo artisti e a lasciarne fuori qualcuno. Tutti ci emozioniamo quando un cantante descrive le stesse cose che abbiamo provato noi, ma chi fa arte dovrebbe fare un passo in più, dovrebbe dire quello a cui noi non avevamo pensato. Willie, in Iodegradabile, lo fa, e per questo è un artista. Riesce, appunto, ad analizzare la società dandone un quadro personale, ma allo stesso tempo fedele al vero, riproducendone complessità e contraddizioni, che spesso tra loro non trovano una mediazione. Anzi, la cifra stilistica e – prendetela con le pinze – ideologica di questo disco sta proprio nella complessità: Iodegradabile è un album contro la semplicità e le semplificazioni, in tutte le forme possibili.
Lo è innanzitutto dal punto di vista prettamente artistico. La lingua di Willie Peyote è complessa, fatta di sfumature, si adatta alla realtà in maniera precisa, così come le narrazioni che crea, quasi carnose anche nelle ferite che evocano. Sa essere accesa in alcuni punti, diretta e luminosa, chiudendosi invece in una maggiore oscurità in altri momenti. Le produzioni, firmate dai soliti Kavah e Frank Sativa, portano qualcosa che nel rap italiano – perché, ribadiamolo, questo è un disco rap – tanto spesso non si sente. C’è la black music, e ce n’è tanta e nelle forme più varie, tra una probabile citazione all’Oh mamma mia di Che soddisfazione di Pino Daniele in Quando nessuno ti vede, e giri di basso e batteria che ci fanno pensare a un Anderson .Paak con l’alito che sa di bagna cauda. In certi riff di chitarra e arrangiamenti, però, c’è anche tanto rock, di quello che ci riporta nel Regno Unito negli anni ’90, e questa era una dimensione che mancava negli album precedenti.
E poi c’è la complessità nel trattare ogni tema, e qui si viene al vero quid di questo disco. Per ogni argomento, per ogni dimensione della vita di tutti noi, vengono poste domande e osservazioni che non prevedono una risposta secca, un sì e no rapido, ma richiedono riflessione, analisi approfondita. Nell’intro di Iodegradabile si parla dell’uso che facciamo del tempo ed è proprio con esso che “lavora” questo album, avendolo sia come alleato che come nemico. C’è bisogno di tempo per capire certe cose, o anche solo per iniziare a interrogarcisi sopra; ma, allo stesso modo, di tempo ne abbiamo sempre meno, non c’è la possibilità di soffermarsi a lungo su qualcosa. Perciò proviamo a darci risposte facili perché, nonostante siano imprecise o addirittura sbagliate, ci permettono di andare oltre, rapidi, senza guardarci attorno. Che è quello che un artista fa, che è quello che Willie Peyote fa. La sua scelta lo rende perciò rivoluzionario, perché ha messo su un disco relativamente breve – e che quindi sembrerebbe seguire le logiche del tempo – ma con strascichi lunghi, che non ti levi di dosso facilmente, che ti seguono fino a che non ti siedi e affronti tutti gli interrogativi che l’album pone. Come se volesse forzare le dinamiche nelle quali siamo incastrati.
E così l’amore c’è in tutte le sue forme attigue e collaterali, nel lato fisico e in quello idealizzante; e così il racconto è cupo, pregno di depressione e senso di vuoto, ma anche ironico, come tutti i dischi di Willie sono sempre stati. E così la politica, che è analisi dei problemi, non si presta a slogan per strizzare l’occhio a questo o a quell’elettorato, attacca i 5 Stelle no vax, ma anche Burioni.
Proprio la politica, intesa come studio della collettività e non come dialettica partitica, è forse l’elemento intorno al quale ruota il disco. Ogni aspetto della vita è filtrato attraverso una chiave “comunitaria”, che riguarda tutti. Anche l’amore, l’esperienza intima per eccellenza, fa comunque muovere la coppia in mezzo alle altre persone, che la influenzano con giudizi e pregiudizi. È un disco politico, quindi, non tanto per gli argomenti trattati, ma per l’approccio, che tende a dare uno sguardo d’insieme a ogni questione, rendendola così collettiva.
Iodegradabile è, quindi, un lavoro che non c’entra nulla col resto, e che per questo ha più valore, perché quel resto prova a intaccarlo. È l’ennesima prova di spessore di un artista che è tale perché si prende la briga di dirci cose che non troppo spesso ascoltiamo altrove, ci fa sedere a riflettere, restando comunque leggero nel senso più positivo del termine. Se volessimo usare categorie semplicistiche, diremmo che è un album anti-populista o, come si legge spesso di troppi lavori discografici, che è tra i dischi dell’anno, come se fosse una gara a premi. In realtà Willie Peyote ci ha “semplicemente” dato un disco come dovrebbe essere, di quelli che, tra qualche anno, non si saranno disciolti, ma avranno mantenuto la loro sostanza, oltre all’imballaggio.