Nonostante l’avanzata di numerose ed eccentriche figure femminili nel panorama hip-hop odierno, l’emancipazione della donna sembra ancora essere lontana dalla sua vera realizzazione. Analizziamo il fenomeno nel dettaglio
Quando si parla di femminismo, un’accozzaglia di pensieri diametralmente opposti prendono vita e si danno battaglia, tra chi vorrebbe un mondo guidato soltanto da donne e chi crede invece che si tratti di un argomento sopravvalutato, figlio dell’epoca disinibita e libertina nella quale viviamo.
La realtà, teoricamente, dovrebbe stare nel mezzo, ma i paladini dell’uno e l’altro schieramento si vedono quasi costretti (un po’ come accade nel campo del tifo calcistico) ad estremizzare le proprie idee al fine di far passare un messaggio forte e prevalicante.
In ambito hip-hop, purtroppo, il raziocinio latita, e la rappresentanza di questa particolare materia è affidata spesso a soggetti che non dovrebbero nemmeno avere il diritto di voto, figuriamoci quello di assumere la leadership di un movimento sociale tanto nobile.
Si sa, d’altronde, l’hip-hop ha sempre risentito delle connotazioni maschiliste assorbite nei decenni precedenti alla sua nascita ufficiale, insite già nei movimenti per i diritti civili che lo hanno generato e, più nello specifico, nella personalità di moltissimi dei loro maggiori leader, che vedevano nella donna una figura servile e sottomessa più che parte integrante e costruttiva della lotta; detto questo, guai a screditare il ruolo assunto da alcune magnifiche attiviste (Rosa Parks, Angela Davis, ma anche Afeni Shakur, per fare un esempio più immediato e familiare), per il cui coraggio e spirito d’iniziativa non ricevono tutt’oggi il riconoscimento che meritano.
Sia chiaro: l’emancipazione della donna è sacrosanta, comunque la si voglia vedere. Nel ventunesimo secolo, non è più accettabile pensare che sussistano disparità di genere, anche se è doveroso prender coscienza del fatto che c’è ancora tanta strada da percorrere, e l’hip-hop non può restare indietro, proponendosi già sotto molti aspetti come cultura d’avanguardia e che fa del conflitto alla diseguaglianza – qualunque essa sia – una propria priorità.
Addirittura l’accusa di omofobia, un tempo tra le preferite degli instancabili detrattori, pare aver dato prova d’essersi dissolta come sale nell’acqua, grazie alle recenti dimostrazioni di solidarietà verso la comunità LGBT (basti pensare al cordoglio mostrato in occasione dell’outing di Frank Ocean), per quanto, se proprio vogliamo essere onesti, non si tratti di un improvviso ed innovativo cambio di rotta ideologico, bensì l’espressione di un voto già insito per definizione nella genetica della cultura black.
Questa posata premessa, comunque, non deve far sostenere tesi che non esistono: essendo l’hip-hop – per natura – un ambiente estremamente competitivo, i rapper utilizzeranno sempre epiteti denigratori per demolire l’avversario di turno, così come avranno sempre la tendenza a considerare la donna un oggetto di conquista, anche se quest’ultima abitudine è paradossalmente incoraggiata da un comportamento errato, sciorinato dalle cosiddette “rapper femministe” che si stanno facendo strada nell’ultima decina d’anni.
Il problema non è di facile individuazione, e richiede una buona dose di filosofia per essere colto appieno, perché viviamo ormai in una società – quella occidentale – abituata a dare per scontati certi canoni, non importa quanto sbagliati e controproducenti essi siano.
Sostanzialmente, una fetta troppo esigua di pensatori ed opinione pubblica si sta rendendo conto che la “femminista” attuale, nell’universo hip-hop, è colei che fa sfoggio di un orgoglio cieco verso la propria spudoratezza, convinta di poter abbattere le barriere di genere utilizzando lo stesso vocabolario ma soprattutto – cosa ben più grave – la stessa chiave di lettura del mondo dell’uomo, evolvendosi quindi da preda a predatrice, e mostrando disincanto verso quelle peculiari caratteristiche genetiche che fanno della donna ciò che – per natura – è.
Pensare, dal punto di vista femminile, di utilizzare l’immedesimazione più camaleontica per raggiugere un livello di pari rispetto con la controparte maschile, è tanto triste quanto inutile: se ci vogliamo illudere, anche lontanamente, che la “SlutWalk” di Amber Rose o i testi forzatamente sessisti della Nicki Minaj di turno (nome intercambiabile con quello del suo clone malriuscito, Cardi B) possano davvero mettere in moto una rivoluzione antropologica finalizzata alla realizzazione sociale della donna, allora sia permesso a chi scrive di fare le sue più sentite condoglianze all’intera categoria.
Tramutare in un vanto ciò che agli occhi del maschio primitivo è pura degradazione, esponendo cartelli recanti lo slogan “Proud Slut” ed esasperando i limiti della mera attrazione fisica fino all’ostentazione della volgarità, ha come unico risultato quello di “legittimare” (anche se di legittimo, qui, non c’è proprio nulla) gli istinti più bassi del sopracitato maschio, il quale non sarà mai in grado di cogliere un messaggio che, tra l’altro, attira visibilità solo per il carattere pornografico che esso assume, in ultima istanza.
Effettivamente, considerato il background che accomuna alcuni dei paladini di questa controversa campagna (sia Amber Rose che Cardi B hanno un passato, rivendicato anche con vanto, da spogliarelliste), è facile asserire che il ricercato scandalo da cui queste signorine traggono il proprio peso mediatico sia, appunto, nient’altro che un modo come un altro per farsi pubblicità, ingrassare il conto in banca e lasciare, alla fine dello spettacolo, un ammasso di macerie inutilizzabili, che non servirà a nessuno. Se non a loro.
Se guardiamo indietro, allo stesso modo, è assai ostico trovare elementi di conforto, e quest’affermazione è dedicata a tutti quelli che credono che l’oggetto dell’attuale discussione sia pronto, da un momento all’altro, ad assumere caratteri nostalgici, della serie: “era meglio prima”. No, in realtà, non era meglio nemmeno prima, poiché la consapevole abiezione della donna per mano della donna stessa è vecchia come il cucco: sin dai – brevi – giorni delle H.W.A. (“Hoez With Attitudes”, scritturate presso la Ruthless Records di Eazy-E e che avrebbero dovuto costituire la risposta femminile agli N.W.A) agli svergognati outfit sfoggiati da Lil’ Kim a metà anni ’90, le ragazze che si sono avvicinate al rap mainstream hanno quasi sempre ripiegato sulla sovraesposizione delle proprie grazie per legittimare la loro posizione, cercando di attirare più per le curve che per la professionalità.
L’unica differenza col passato è che oggi, rispetto a prima, le rapper sono diventate anche dei fenomeni pop, per cui la loro spudoratezza diventa presso le masse quella peculiarità che definisce – erroneamente – un’intera comunità.
In passato, poi, l’irriverenza delle rapper era controbilanciata dalla pacatezza delle dive dell’R&B, essendo stati gli ultimi dieci anni del secolo scorso caratterizzati da quel crossover che ha visto due mondi al contempo uguali e diversi (rap e R&B, appunto) incontrarsi e prosperare unitamente; oggi, però, nemmeno l’ambiente che un tempo fu di Aaliyah è immune dalla faciloneria dei tempi che corrono: basta farsi un giro su Instagram, infatti, per rendersi conto che le varie K. Michelle, Keyshia Cole e compagnia – seppur dotate – non mettano sempre al primo posto la propria arte. Anche loro sembrano salite sul famigerato carro, ed il fine è sempre e soltanto uno: la visibilità.
Purtroppo per noi tutti, coloro che davvero sarebbero in grado di dare l’esempio migliore di come una donna possa farsi strada in una cultura “male dominated” (senza recitare la parte della escort a buon mercato) tacciono o sono messe in ombra dalle necessità del business, perché ogni cosa – disgraziatamente – scivola nello spietato vortice del mercato: se domani mattina, all’improvviso, Amber Rose cominciasse a mostrarsi in televisione in abiti sobri e ricorresse ad iperboli letterarie per esporre le tesi del women empowerment, state certi che TV e giornali non le dedicherebbero un rigo.
La colpa, quindi, è anche nostra, perché la cecità da entrambe le parti della barricata non è altro che un gioco al massacro per il quale, alla fine, è soltanto la donna ed il suo vero valore a rimetterci.
Mentre, nell’emisfero occidentale del mondo, per quanto all’avanguardia esso possa apparire, le donne cercano ancora di emergere in modo omogeneo sull’ideale mappa dell’affrancamento comunitario, la partecipazione non solo morale ma innanzitutto pratica della cultura hip-hop potrebbe senza indugi accelerare il processo di emancipazione, se solo si elevassero e glorificassero personalità più profonde di quelle attualmente in auge.
È un lavoro che deve fare ciascuno di noi, e siamo chiamati a scegliere responsabilmente chi buttare giù dalla torre, ricordandoci che ha fatto di più Lauryn Hill per la causa femminile in soli due anni che la calva Amber Rose e la sintetica Nicki Minaj in quasi un decennio passato sul palcoscenico: a questi infelici personaggi, basterebbero solo cinque minuti di analisi cosciente davanti allo specchio per comprendere senza difficoltà chi sta davvero impedendo la redenzione della donna nel già difficile panorama black.