La politica americana ed Eminem sono sempre stati legati a doppio filo: ripercorriamo le tappe che hanno visto il rapper di Detroit relazionarsi con i quattro Presidenti degli ultimi diciotto anni.
Anche quella tra Eminem e George W. Bush, quindi, fu una storia d’amore mai destinata a sbocciare.
Come già spiegato nel capitolo precedente, l’elezione del repubblicano Bush rappresentò per Eminem una profonda deviazione nella sua percezione della realtà circostante, da micro a macroscopica, non più confinata ai trailer parks di Detroit ma estesa ai confini nazionali, frutto dell’inedita consapevolezza di parlare ora a tutto il popolo americano, che – dalla pubblicazione del singolo “Stan” in poi – pare pendere dalle sue labbra.
E’ proprio il senso di responsabilità che pervade Eminem in questo travagliato periodo per il suo paese che lo spinge, nel 2004 e quasi contemporaneamente all’uscita di “Mosh”, a pubblicare “We as Americans”, un brano il cui ricordo è rimasto impresso nelle menti di fans e biografi più per una sua oscura frase che per i numeri in classifica (la canzone, per la cronaca, non uscì mai come singolo):
“Fuck money! I don’t rap for dead presidents
I’d rather see the President dead,
It’s never been said, but I set precedents!”
(“We as Americans”, “Encore” Bonus CD, 2004).
L’indagine aperta dai Servizi Segreti statunitensi a fronte di questa manciata di rime fu più un modo da parte del sistema per “mostrare i muscoli” che una coerente iniziativa volta a difendere il Presidente dall’istigazione all’odio: Eminem, d’altronde e per quanto diretto, non s’improvvisa vendicatore della patria né cerca d’ispirare alcun Robin Hood per liberare il suo Paese dal tiranno; in soldoni, si tratta solamente della manifesta repulsione di un rapper per le gesta di un Capo dello Stato – oggettivamente – irresponsabile e corrotto, come le conseguenze pratiche della sciagurata politica interna ed estera di Bush avrebbero dimostrato nell’immediato futuro.
A sua difesa, come già fece ogni generazione di entertainers irriverenti prima di lui, Eminem si appellò (senza plateali proclami, comunque) alla libertà di parola, insindacabile nella “land of the free and the home of the brave”, forse l’unico e perpetuo valore che vedrà sempre unite tutte le correnti di pensiero americane, dai più datati tradizionalisti ai liberali di giovane fattura. Ed è così che il suo personaggio, pur sotto la minaccia di qualsivoglia peripezia, è sempre riuscito ad oscillare tra l’esecro del potere e la lode degli ultimi.
Nel novembre del 2008, però, ecco che accade l’inaspettato: Barack Obama, senatore dell’Illinois e in corsa per il Partito Democratico contro John McCain, vince le elezioni e diventa il primo Presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti d’America.
E’ un evento storico, accolto con sommesso gaudio anche da coloro che forse avrebbero voluto un altro repubblicano al timone, vinti dalle inverosimili macerie lasciate dall’ultimo Presidente di destra che aveva guidato la nazione.
Fu il bisogno di qualcosa di nuovo, che desse nuova speranza all’America e la tirasse fuori dalle sabbie mobili della recente crisi economica mondiale (estate ’08), che spinse il 67,8% degli aventi diritto al voto a mettere la croce sul nome di Obama, “giovane, bello e abbronzato”, come lo definì qualcuno che conosciamo bene qui da noi, o forse soltanto un uomo determinato a fare del bene (“Yes, We Can”), altresì conscio che il colore della sua pelle avrebbe costituito un obbligo, un onore e una sfida in campo di eguaglianza sociale.
Nel periodo in cui il mondo s’innamorava di Obama, su Eminem sembrava essere calato il sipario: in ginocchio sotto il peso di un secondo divorzio, la morte dell’amico Proof e una morte sfiorata per overdose da farmaci, tra il 2006 ed il 2009 si aveva la sensazione che Marshall Bruce Mathers III non fosse mai esistito; la scena rap portava alla ribalta nuovi interpreti, i veterani – sostanzialmente – tacevano ed il pubblico imparava pian piano ad assorbire la musica rap come una variante ribelle del pop, diventato all’improvviso accessibile a tutti e vergognosamente puerile.
Anche Eminem, come la totalità dei suoi colleghi, accolse con soddisfazione la vittoria di Obama su McCain, per quanto questo risultato fu esaltato solo attraverso le rare interviste che inframezzavano un ricovero dall’altro.
In effetti, attorniato da una famiglia che in Italia definiremmo “da Mulino Bianco”, Barack Obama si presentò ai suoi come l’uomo del cambiamento, e molto – anche se non abbastanza – egli fece: tra le altre conquiste di stampo progressista, pensiamo all’Obamacare (“Patient Protection and Affordable Care Act”), la tanto pubblicizzata riforma sanitaria che non introdusse la sanità gratuita negli USA ma assicurò ai cittadini – con vincoli e divieti imposti a datori di lavoro e compagnie d’assicurazione – di poter avere accesso alle cure mediche tramite polizze agevolate; la fondamentale “Don’t Ask, Don’t Tell Repeal Act”, promulgata nel 2010 e che introdusse la possibilità gay, lesbiche e bisessuali di prestare il proprio servizio nell’Esercito degli Stati Uniti senza l’obbligo (tassativo, fino ad allora) di mantenere segreto il proprio orientamento sessuale; impossibile, poi, non menzionare la “Tax Relief Act”, anch’essa del 2010, che diede un decisivo impulso alla ripresa economica degli States, dopo la recessione iniziata un paio d’anni prima.
L’orgoglio della fazione nera nei confronti del primo presidente afroamericano, tuttavia, deve (e sempre dovrà, purtroppo) scontrarsi con le tante sconfitte patite dal Governo Obama, di certo rese meno colpevoli dal pluralismo a cui è soggetta ogni iniziativa in un sistema democratico (al suo secondo mandato, non dimentichiamolo, Obama dovette confrontarsi con un Congresso a maggioranza repubblicana) ma pur sempre impresse negli annali: le due più importanti furono senz’altro la riforma sul possesso di armi da fuoco, una causa destinata a restare persa, indipendentemente da chi occupi la Casa Bianca, ed il mancato ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che fu uno dei punti principali del programma di Obama fin dalla sua prima corsa alle presidenziali.
E’ difficile pensare cos’abbia spinto l’elettorato americano a virare così tanto a destra da scegliere un soggetto angusto come Donald Trump quale successore del primo Presidente di colore della storia; molto probabilmente, il trionfo di Trump alle elezioni di novembre 2016 non è nient’altro che un singulto reazionario alla pochezza della proposta democratica, che alle primarie del partito ha permesso a Hillary Clinton – l’ex first lady – di candidarsi, invece di puntare sul preparatissimo Bernie Sanders, senatore del Vermont e particolarmente amato dalla comunità afroamericana per il suo sostegno alla causa della parificazione sociale, oltre a quella contro la pena di morte e alla fine delle ostilità in Iraq.
Purtroppo, però, i seggi hanno dato il loro responso: Donald Trump (grazie al medievale sistema dei grandi elettori, sia chiaro) è il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, e l’attuale parvenza di consenso che sta ricevendo il magnate di Brooklyn è solo proporzionale al suo tempo di permanenza a Washington, che non è stato abbastanza da mostrarne l’impreparazione politica, oltre che la scelleratezza umana.
Come ai tempi di Bush, Eminem non ha perso tempo e già un mese prima del successo di Trump, nello stesso giorno del terzo dibattito televisivo tra i due candidati alla presidenza, ha pubblicato il freestyle “Campaign Speech”, nel quale la sua avversione per imprenditore fattosi politico si svela nella sua forma più cinica e rabbiosa:
“Consider me a dangerous man,
But you should be afraid of this dang candidate,
You say Trump don’t kiss ass like a puppet,
‘Vause he runs his campaign with his own cash for the fundin’,
And that’s what you wanted,
A fuckin’ loose cannon who’s blunt with his hand on the button,
Who doesn’t have to answer to no one – great idea!”
(“Campaign Speech”, 2016)
In questo frammento, notiamo come Eminem non abbracci più la politica con la verve comica di un tempo: dopo aver considerato la rielezione di Bush “impossibile” poco più di una decade prima (“Se Bush dovesse essere rieletto, ci sarà un’insurrezione”, aveva detto nell’autunno del 2004), il protégé di Dr. Dre sembra aver imparato la lezione di non sovrastimare la capacità di scelta dei suoi concittadini, ma d’impostare un discorso serio, subito drammatico, per convincere almeno il suo pubblico che non si tratta di un gioco, bensì del destino di una nazione dalla quale, in fin dei conti, dipendono anche le sorti del mondo.
Non che Em abbia qualcosa di personale contro il neoeletto presidente, anzi: il 28 ottobre 2004, quando si festeggiò in pompa magna all’ora defunta Roseland Ballroom di New York la nascita della radio satellitare Shade 45, Donald Trump figurò addirittura tra gli invitati all’evento, e si ritrovò anche ad incitare una folla in delirio a dare il proprio voto al “man of the people” (Eminem, ovviamente), sulla falsariga di un’autentica – ed esilarante – convention politica; quella serata, infatti, fu simpaticamente intitolata “Shady National Convention”, e proponeva un impacciato Eminem nei panni di un candidato alla Casa Bianca, alla ricerca di consenso per le strade della Grande Mela e con un programma tutto da ridere.
Quello, però, era uno spettacolo, ed erano anche altri tempi; nessuno, all’epoca, avrebbe infatti mai immaginato che, dodici anni più tardi, Trump sarebbe davvero approdato nella capitale in qualità di Presidente, e non lo poteva immaginare certo Eminem, che fin dal giorno delle primarie in seno al Partito Repubblicano non ha mai mancato di opporsi con decisione – e con il (quasi) totale consenso dei suoi colleghi – alla nomina di Trump quale nome forte per la destra, un risultato che lascia ben intuire in quale stato di degrado si trovi l’ala conservatrice americana.
Tutti hanno visto, ai BET Hip-Hop Awards dello scorso ottobre, quale sia l’attuale pensiero di Eminem sul Presidente Trump: Marshall, proprio come fece in “Mosh”, esorta chi sta dalla sua parte a non esitare a prendere una decisione forte contro quello che non solo lui, ma una buona fetta del mondo intellettuale occidentale ha inquadrato come il “male assoluto”, e non serve, a ben vedere, essere politologi navigati per capire verso quale rotta arcaica e autodistruttiva Trump stia trascinando la democrazia del Nuovo Mondo.
“Fuck that, this is for Colin, ball up a fist!
And keep that shit balled like Donald the bitch!
’He’s gonna get rid of all immigrants!’
‘He’s gonna build that thing up taller than this!’
Well, if he does build it, I hope it’s rock solid with bricks,
‘Cause like him in politics, I’m usin’ all of his tricks,
‘Cause I’m throwin’ that piece of shit against the wall ‘til it sticks,
And any fan of mine who’s a supporter of his,
I’m drawing in the sand a line, you’re either for or against,
And if you can’t decide who you like more and you’re split,
On who you should stand beside, I’ll do it for you with this:
F*ck you!
The rest of America, stand up!
We love our military and we love our country,
But we f*ckin’ hate Trump!”
(“The Storm”, BET Hip-Hop Awards Cypher, 2017)
Molti, troppi americani della classe media – in realtà – si sono lasciati ammaliare dalla figura fuori dagli schemi di Trump: per milioni di famiglie, abituate al rigido protocollo politichese, vedere un self-made millionaire (ma mica tanto) parlare come fosse uno di loro, appassionato di hamburger e barbecue come un qualsiasi comune mortale, è stato un evento spartiacque, soprattutto perché hanno visto in questo individuo l’esaltazione di una tradizione americana che Obama, con il suo background particolare e lo sguardo proiettato verso un’idea più candida di globalizzazione, non decantava.
E’ per questo che Eminem, per la prima volta nella sua vita, si è ritrovato contro il dissenso della middle class, lo stesso strato della popolazione per il quale si era ormai guadagnato una rappresentanza ad honorem, avendo per anni cantato la sua incredibile storia di emarginato fattosi spazio a spintoni al tavolo dei salvati: quegli adolescenti ribelli che sparavano “Lose Yourself” nello stereo delle loro camerette sono oggi i primi sostenitori dell’attuale Presidente USA, e il loro considerare il rap come una qualsiasi altra forma d’intrattenimento li ha portati ad anteporre il loro “furore nazionalista” agli “scimmiottamenti oltraggiosi” di un Eminem qualunque.
Molti danni li ha fatti anche MTV, che spingendo per la conversione di Eminem in un fenomeno pop, l’ha fatto conoscere ai suoi telespettatori per quello che “doveva apparire” (un ragazzo arrabbiato col mondo, indocile e che odia sua madre, in linea col profilo del tipico ragazzetto brufoloso, devastato dai demoni della pubertà e in cerca di un modello da imitare) invece di mostrarlo per quello che “realmente era”, e cioè un talento contemporaneo che ha preso il malessere di un proletariato dimenticato e – attraverso un mezzo espressivo black – l’ha sbattuto in faccia ad un’intera nazione (un po’ come fecero gli N.W.A all’epoca di “Straight Outta Compton”, o Tupac con “Brenda’s Got a Baby”).
Chi ha criticato il freestyle, l’ha fatto basandosi su aspetti meramente tecnici, senza considerare nemmeno per un secondo il sacro peso del contenuto, ma la cecità – si sa – fa spesso rima con ignoranza, ed il primo a tracciare una linea tra sé e questa categoria è proprio il protagonista di questo scritto.
Nemmeno ad Eminem, come a tantissimi nel mondo, è piaciuta la stoccata di Trump ai giocatori della NFL, definiti poco amorevolmente “figli di buona donna” dal tycoon per la loro scelta d’inginocchiarsi durante il saluto alla bandiera con cui si apre ogni partita di football, in segno di protesta contro la brutalità della polizia nei confronti d’inermi cittadini di colore.
Quello della “police brutality” è un problema che in America non è mai stato davvero risolto, ed è tornato alla ribalta proprio di recente, durante l’estate di violenza incontrollata del 2016, che ha visto perire sotto i colpi sparati da poliziotti inidonei (ma infine, come sempre, assolti) Philando Castile e Alton Sterling, due giovani afroamericani disarmati.
Trump si ostina a non riconoscere l’incalzante piaga del razzismo nel suo paese, per cui l’universo hip-hop – come qualunque osservatore dotato di buon senso – ne trae le dovute conclusioni: Colin Kaepernick, il giocatore di football che ha ispirato il Take a Knee Movement (e attualmente – chissà come mai? – senza squadra) ha ricevuto e continua a ricevere solidarietà e supporto da tutte le maggiori personalità del rap, e non dovrà sorprendere l’accensione di nuovi focolai nell’immediato futuro in risposta alla noncuranza con cui “The Donald” (non) sta trattando i delicatissimi problemi interni della nazione che gli ha dato fiducia.
Eminem, senza ombra di dubbio, continuerà a far sentire la sua voce per chi urlare il proprio sdegno non può, e poco importa se per alcuni il suo valore artistico pare aver subìto un’involuzione dalla quale non c’è ritorno: quando lo spettacolo sarà finito, i posteri saranno obbligati ad inquadrare il più grande rapper bianco di tutti i tempi come un genio sensibile al valore sociale della sua arte.