La politica americana ed Eminem sono sempre stati legati a doppio filo: ripercorriamo le tappe che hanno visto il rapper di Detroit relazionarsi con i quattro Presidenti degli ultimi diciotto anni.
Il concitato freestyle di Eminem ai BET Hip-Hop Awards dello scorso ottobre, durante il quale il rapper di Detroit ha mostrato tutto tranne che simpatia nei confronti di Donald Trump, è soltanto l’ultimo capitolo di un corposo romanzo, cominciato contemporaneamente alla carriera del nostro, la storia di una generalizzata inimicizia che solo recentemente ha incontrato una lieve disapprovazione da parte dell’opinione pubblica.
Eminem ha fatto la sua comparsa sul palcoscenico internazionale nell’ormai lontanissimo 1999, all’epoca del secondo ed ultimo mandato del democratico Bill Clinton, la cui eredità non sarà forse mai soggetta a pareri univoci (come quella di tutti i suoi colleghi, d’altra parte).
Clinton, alla Casa Bianca dal 1992 al 2001, fu promotore di alcuni storici provvedimenti per il paese di Benjamin Franklin, tanto innovativi quanto ammirevoli: ricordiamo, ad esempio, la riforma sanitaria infantile (“State Children’s Health Insurance Program”), limitata ai soli bambini poiché il Congresso, nel ’93, ne rigettò la versione universale, con l’infame plauso di conservatori e industria farmaceutica, quasi vent’anni prima dell’Obamacare; non è possibile ignorare, poi, la centralità della figura di Clinton nelle trattative di pace tra Israele e Palestina, interrotte bruscamente nel ’95, quando Yitzhak Rabin, il leader israeliano, fu assassinato da un colono ebreo estremista; non meno importante, infine, fu l’impegno sociale del quarantaduesimo Presidente una volta lasciata la scrivania dell’Ufficio Ovale, che ha visto la fondazione della William J. Clinton Foundation, il cui scopo è ancora oggi quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su alcuni temi di globale interesse, tra cui il riscaldamento globale e la prevenzione dell’AIDS (anche se non è ancora chiaro da chi questa ONLUS sia finanziata).
Parallelamente, tuttavia, non si possono non prendere in esame anche le macchie di cui la carriera politica di Clinton nella sua massima carica si è imbrattata e che, da sempre, fanno gonfiare il petto ai suoi denigratori: nonostante i distinti meriti (tra cui anche quello, non elencato sopra e non indifferente, di aver lasciato le casse dello Stato in ottima salute), è doveroso citare l’Iraq Liberation Act del ‘98, l’ultima azione diplomatica degli USA contro il regime di Saddam Hussein, prima della brutale invasione del 2003; l’intervento in Kosovo (nel ’99, a supporto dell’Albania), all’epoca funestato dalla guerra civile tra indigeni albanesi e serbi, più per difendere gli interessi strategici nazionali nella zona e per le pressioni della lobby filokosovara (guidata dal senatore Robert “Bob” Dole, repubblicano) che per impulso a fini umanitari (gli States, d’altronde, non mossero un dito durante il precedente conflitto tra Serbia e Croazia, che vide la Jugoslavia di Tito affogare e spezzettarsi nel sangue); ma è soprattutto allo scandalo Lewinsky, conosciuto anche come Sexgate, che la figura del politico sarà sempre legata con grande imbarazzo, ed è in esso che Eminem trovò le prime, irriverenti ispirazioni di political rap.
Gli Stati Uniti sono un paese strano: puoi procurarti un’arma regolarmente registrata dal lattaio anche se hai avuto un nutrito passato criminale, ma se menti e vieni smascherato, la tua credibilità si annulla a trecentosessanta gradi.
Ed è proprio per aver detto una bugia davanti al suo Paese, e cioè di non aver avuto rapporti sessuali con la sua stagista, Monica Lewinsky, che Bill Clinton è finito nei guai.
Sì, è vero, il processo di impeachment non fu istruito per il mero peccato di lussuria: secondo l’accusa, infatti, Clinton non avrebbe solo dichiarato il falso sotto giuramento (“perjury”) ma avrebbe anche commesso ostruzione dei procedimenti giudiziari (“obstruction of justice”), accuse da cui sarebbe stato prosciolto e comunque slegate dall’affare Lewinsky, relative infatti ad una denuncia per molestie sessuali risalente al 1994.
Nonostante l’assoluzione del Senato, in ogni caso, l’immagine di Bill Clinton si è danneggiata senz’appello, e da allora non si è mai smesso di far seguire la pronuncia del suo nome da un sorriso furbetto, quello di chi sa di quale spregiudicato tombeur de femmes si stia parlando.
Abituato com’era a farsi beffa delle più sensibili debolezze dei suoi avversari ai tempi delle battaglie rap clandestine, Eminem non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione d’irrompere sulle quinte con una sferzata in direzione del suo Presidente, non il peggiore ma simbolo di quell’establishment che l’aveva condannato – e quelli come lui – ad un’infanzia di stenti e violenza.
Eminem, con tutta probabilità, non odiava Clinton, ma l’aveva assurto a personificazione della contraddizione, tutta americana, di predicare come Giovanni Battista nel deserto e poi tradire senza vergogna le attese di un popolo speranzoso, nelle meschine modalità di un Giuda Iscariota qualunque:
“You want me to fix up lyrics
while the President gets his dick sucked?”
(“Who Knew”, “The Marshall Mathers LP”, 2000)
“Two kids, sixteen, with M16’s and ten clips each,
and them shits reach through six kids each,
and Slim gets blamed in Bill Clint’s speech to fix these streets?”
(“Remember Me?”, “The Marshall Mathers LP”, 2000)
Non dimentichiamo che l’America trovata da Eminem nell’anno del suo debutto discografico mainstream, il 1999, era non soltanto l’America dello scandalo Lewinsky, ma anche quello della strage di Columbine, nella quale due ragazzini minorenni furono in grado di entrare nella loro scuola armati fino ai denti e uccidere quindici persone, tra alunni ed insegnanti; fu l’evento che riaprì (come accade a cadenza regolare, negli USA, dopo le stragi di massa) l’inutile dibattito sulla diffusione delle armi da fuoco nel Paese, regolarmente zittito dall’ATF e dalla grande fetta della popolazione che considera il secondo emendamento un pretesto per mantenere viva la memoria del Far West.
Questa era la situazione tragicomica che Eminem cercò di descrivere fin dal videoclip di “My Name Is”, ma nemmeno lui – pessimista DOC – poteva immaginare quanto sarebbe accaduto di lì a qualche anno.
Nel 2001, infatti, fu il repubblicano George W. Bush ad insediarsi nel bianco palazzo di Washington, e la memoria delle malefatte di questo figlio d’arte con la passione per la bottiglia si è affievolita soltanto grazie allo spettacolo che Trump ci sta offrendo nell’ultimo anno, forse l’unico Presidente nella storia a sembrare meno sobrio di lui.
L’avversione a Bush non fu immediatamente unanime, ma lo divenne a cavallo tra i due mandati: tra la spudorata ed ingiustificabile invasione dell’Iraq (2003), l’orrenda gestione umanitaria in seguito all’uragano Katrina (2005) e addirittura il forte sospetto di brogli elettorali in Florida alle elezioni del 2000 (ma anche quelle del 2004 non furono indenni da dubbi), George Bush si è guadagnato con merito un posto nell’esclusivo club de “I Presidenti più odiati di sempre”, ove già occupano una poltrona primati come Richard Nixon e Ronald Reagan.
Mentre, in quel periodo, le altre personalità del cinema e della musica statunitense espressero il proprio malcontento per l’amministrazione Bush in maniera più diplomatica, Eminem trovò terreno fertile per vomitare tutta la sua rabbia in testi che, per la prima volta nella sua carriera, si possono considerare veramente “politici”: nel 2002, infatti, mentre Ground Zero ancora fumava per la caduta delle Torri, il rapper pubblicò “The Eminem Show”, un disco spudorato e scomodo, che filtra la realtà del momento e la fotografa attraverso gli occhi di un cittadino qualunque, magari scampato (finalmente) alla piaga della miseria, ma che non ha perso il contatto con la realtà.
“All this terror, America demands action,
next thing you know, you’ve got Uncle Sam’s ass askin’,
to join the army or what you’ll do for their Navy,
you’re just a baby gettin’ recruited at 18,
you’re on a plane now, eatin’ their food and their baked beans,
I’m 28, they gon’ take you ‘fore they take me!”
(“Square Dance”, “The Eminem Show”, 2002)
Nella crociata anti-Bush di Eminem, si possono riconoscere due fasi ben distinte: la prima, quella di “White America”, vede il nostro intento a mettere in guardia il popolo, convincerlo – anche goliardicamente – a spegnere il televisore sintonizzato su Fox News, spogliarsi del limite tipico della classe media (la superficialità, l’approssimazione) e prendere atto di chi sia il vero nemico; la seconda, invece, sintetizzata in tutta la sua drammaticità nella canzone “Mosh”, è caratterizzata dalla trasmutazione di Slim Shady in un Masaniello disarmato, esasperato, che incita l’ormai convinta massa a marciare nella pioggia fino ai cancelli della White House, appurata senza margine d’errore l’identità del “vero bin Laden”:
“Imagine it pourin’, just rainin’ down on us,
Mosh pits outside the Oval Office,
someone’s tryin’ to tell us somethin’, maybe this is God just,
sayin’ we’re responsible for this monster,
this coward that we have empowered,
this is bin Laden, look at his head noddin’,
how could we allow somethin’ like this without pumpin’ our fists?
now this is our final hour!”
(“Mosh“, “Encore“, 2004).
Eminem chiede esplicitamente alla sua gente di poter esserne il portavoce; lo chiede con la consapevolezza di chi sa di avere tutti dalla sua parte, poiché in effetti, nonostante la rielezione, la popolarità di George W. Bush ha continuato a rasentare i minimi storici fino a fine mandato.