La controversa esibizione di Eminem al BET Cypher di quest’anno ha suscitato reazioni contrastanti: cerchiamo di capire perché si tratta di un evento storico e sacrosanto.
A due settimane di distanza dal suo freestyle ai BET Hip-Hop Awards, è forse giunto il tempo di chiedersi quale sia l’eredità lasciata dalla controversa performance di Eminem, che ha sorprendentemente colmato qualche bocca d’amaro rispetto al public consensus a cui da anni il rapper di Detroit ci ha abituati, in special modo quando si tratta di dare un giudizio schietto sulla linea governativa americana del momento.
Motivo per il quale, per carità, nessuno parli di “svolta politica”: fin dai tempi della “comica” amministrazione Clinton (ai meno giovani, il nome di Monica Lewinsky suonerà ancora familiare), Eminem non ha mai esitato a trascinare il Presidente degli Stati Uniti di turno sul palco del suo personalissimo show, camminando un po’ sulle orme dei giullari d’epoca medievale, ai quali burlarsi del potere non era solo concesso, ma anche apprezzato e addirittura preteso dalle stesse “vittime”.
Trattandosi di hip-hop, l’accostamento tra la figura di Eminem e quella del giullare di corte può sembrare fuori luogo (i giullari, d’altronde, erano prezzolati dai principi), ma il succo resta sostanzialmente invariato: finché una voce – oltre l’asfissiante cappa dell’ordine che soggioga – potrà levarsi, allora ci sarà ancora lo spazio vitale per credere nel risveglio del popolo, le cui menti sono estremamente ottenebrabili dalla piovra mediatica che ovunque arriva e tutto stravolge.
Che il suo freestyle sia piaciuto o meno, Eminem ha rivendicato il suo status di uomo libero: pur al riparo d’una capanna dorata, tirata su con i milioni incassati in quasi due decenni di onesta carriera, l’ex ragazzo biondo della 8 Mile ha messo in gioco se stesso ancora una volta, andando contro senza riserve alla ragion del dubbio di un insediamento alla Casa Bianca ancora acerbo, ma sul quale le più funeste convinzioni hanno pervaso le menti dei più attenti osservatori ben prima dei risultati del voto dello scorso anno.
Facendo eco all’onorevolissima protesta attualmente in corso sui campi della NFL di tutta America, Eminem ha fatto soltanto ciò per cui il mondo intero ha imparato a conoscerlo: gettare benzina sul fuoco, con spietata e puntigliosa irriverenza, andando a toccare corde compromettenti che non hanno comunque scalfito la rabbia nella sua voce, in quest’occasione più simile ad uno spaventoso ruggito che al suono emesso da un essere umano.
Il concetto di fondo? Forte e chiaro: Donald Trump è una minaccia, non solo per gli Stati Uniti d’America ma per tutto il mondo emerso.
Lo dice senza fronzoli, Eminem, pur consapevole di alienarsi le simpatie di quella middle class che, a cavallo dei due millenni, gli aveva garantito la popolarità di cui gode tutt’oggi.
Non dimentichiamo, a tal proposito, che Eminem è venuto fuori dal guscio grazie al supporto di milioni di americani che vivevano nelle sue stesse condizioni di disagiato sociale, ai margini di quello strano concetto di welfare vigente nella terra di Benjamin Franklin, in cerca di una voce sovversiva che facesse da megafono e arrivasse fin nelle lussuose stanze congressuali di Washington; tuttavia, un’enorme fetta di sostegno Eminem l’ha trovata anche nella classe media che sta poco al di sopra della soglia di povertà, la sopracitata middle class la cui vita è scandita dagli stereotipi più comuni ai quali si associa il tipico americano medio, quello del football e del barbecue con i vicini la domenica mattina: lo stesso americano medio che, a novembre 2016, ha mandato Trump alla Casa Bianca, credendo alla promessa del tycoon – astratta, priva di significato e già vista – di “far di nuovo grande l’America”.
Si trattava degli adolescenti di fine anni ’90, oggi elettori di peso, il cui sonno ingenuo conciliato dalle canzonette pop di MTV fu scosso dall’uragano incarnato dal viso pallido di Marshall Mathers, che gli fece scoprire quanto la disobbedienza fosse più cool dei balletti sincronizzati degli NSYNC.
Incredibile a dirsi, è proprio quest’ultima categoria, un tempo accanita fan del nostro, a costituire oggi la più spietata opposizione alla libertà intellettuale di un uomo privo di colore politico, votato ad un atteggiamento irriverente che non vuole proporre soluzioni, ma che s’impegna a fungere da campanello d’allarme, una sorta di termometro che misura il grado di decadenza della società attuale.
Attaccando Trump, Eminem non ha necessariamente voluto scagliarsi contro l’intero Partito Repubblicano: come già accennato, la politica c’entra solo fino ad un certo punto; la realtà è che Eminem, come chiunque sia dotato di buonsenso ed un minimo di capacità critica, ha sentito il dovere di morale esprimersi, prendere posizione in un periodo storico, quello in cui viviamo, pericolosamente vulnerabile.
Il freestyle di questo cypher non aveva bisogno di musica, e nemmeno di una metrica ricercata: chiunque abbia sollevato obiezioni sull’autentica valenza artistica dell’esibizione di Eminem (Vince Staples, uno dei – pochi – fuori dal coro) non ha capito l’importanza per un artista impegnato di utilizzare una piattaforma a larghissima diffusione come quella televisiva per scopi che scindano il mero lato goliardico del rap dalla sua componente attivistica.
Se parliamo di hip-hop, dunque, Eminem ha assolto perfettamente il suo compito di rappresentanza, e chi non l’ha compreso dovrà sentirsi parte del motivo per cui la salute di questa nobile cultura sia oggi precaria, in special modo se pensiamo a quale contributo essa potrebbe dare – attraverso i propri esponenti – alla causa sociale, molto più valido e intimidatorio del seppur rispettabile Take a Knee Movement che oggi si prende le prime pagine dei giornali.
Ragioniamo su questi scomodi particolari, e domandiamoci da quale parte della barricata risieda la ragione: se siamo arrivati al punto in cui degli sportivi, nella delicata posizione in cui si trovano (anche se milionari, al soldo di proprietari di franchigie ancor più ricchi di loro), devono mettere in pericolo la loro carriera pur di scuotere le coscienze, dove diavolo si collocano tutti quei rapper in grado di richiamare a sé folle oceaniche, che si vantano di avere il mondo ai loro piedi e poi si rintanano nella hit dell’estate di turno per racimolare i soldi da buttare in faccia alla telecamera nel prossimo videoclip? Di quale effettiva influenza sul prossimo si fanno grossi costoro?
In soldoni, sta tutto nel decidere in che cosa vogliamo credere, ed Eminem ci chiama a deciderlo adesso: se la nostra intenzione è di seguire una cultura fittizia, popolata da inutili stereotipi venduti alla stregua di chimere cartoonesche per far sentire i ragazzini ribelli nelle loro camerette, oppure è quella di prendere a cuore le ingiustizie del nostro tempo, in qualsiasi forma esse si presentino, condensando quasi mezzo secolo di storia black in una lotta che sia globale, accettando quindi l’invito di Eminem ad unirci a lui.
Perché se è il vero hip-hop che amiamo, non dobbiamo avere timore a seguirlo: Eminem è l’hip-hop.