Abbiamo realizzato un’intervista a Don Joe in occasione dell’uscita della sua biografia Il Tocco Di Mida, parlando anche dei Club Dogo e di molto altro ancora.
Circa un mesetto fa, era il 22 ottobre, usciva in tutti i formati disponibili Il Tocco Di Mida, la biografia di Don Joe. Il libro va a concludere simbolicamente una trilogia iniziata tempo fa con La Legge Del Cane di Jake La Furia e Guè Pequeno e continuata poi recentemente da Guérriero. Storie di sofisticata ignoranza dello stesso Gue, che sono le vite raccontate su carta dei tre membri del leggendario gruppo dei Club Dogo.
Si tratta di una lettura molto interessante per gli appassionati del genere, con un linguaggio ed una forma molto “commestibile” e che non ha la pretesa di dilungarsi eccessivamente per riempire le pagine bianche. Si ripercorrono davvero tutte le tappe della vita di uno dei più grandi producer italiani, che racconta molto di sé e delle molteplici realtà di cui ha fatto parte o a cui ha dato vita nel corso degli anni.
Poche settimane fa siamo entrati in contatto con lui e abbiamo avuto modo di parlare dei tanti spunti interessanti che sono emersi nel corso della sua avventurosa vita. Ecco quello che ci siamo detti con Don Joe in questa intervista:
In prima pagina ecco che subito viene fuori un concetto che potrebbe essere benissimo la morale della favola, anche se appunto, in posizione incipitaria: attento a ciò che desideri. Che senso ha questo per Joe? E cosa desidera ora Joe?
«La risposta è semplicemente nella natura umana che cerca continuamente un obiettivo da raggiungere ed in perenne sfida con se stessi. Più che “desidero” cerco sempre il “miglioramento” ed in un certo senso la perfezione in quello che faccio.»
Racconti di quando eravate fieri di aver pagato Kool G per la strofa in Dogocrazia: al tempo era un vanto mentre oggi sarebbe piuttosto strano. Pensi che le molte collaborazioni internazionali uscite da qualche anno a questa parte siano veri e propri attestati di stima, oppure sono solamente manipolazioni discografiche?
«Penso che sia giusto poter collaborare con artisti internazionali a prescindere se sono stati pagati o meno. La cosa importante sta nella riuscita del prodotto finale. Non credo si possa parlare di “manipolazione” anche perché questo tipo di operazioni a volte sono volute in primis dagli artisti stessi che vengono accontentati e che, però, non si traducono sempre in un successo.»
Durante i live ti capita di proporre brani di artisti che non stimi o rispetti particolarmente perché, giustamente, non sei tu che decidi cosa le persone vogliono sentire. E se si trattasse invece di lavorarci in prima persona con certi artisti?
«Allora, diciamo che difficilmente mi capita di lavorare con persone che non ho mai visto prima. Il mio studio (Dogozilla, ndr) infatti non è aperto al pubblico e non faccio lezioni, mix o produzioni a persone che non conosco. Tra l’altro nel processo produttivo è davvero importante che ci sia una certa simbiosi con l’artista, perché se no finisce per essere un processo quasi meccanico e il risultato è diverso, peggiore sicuramente.»
Un tempo c’era una certa cultura musicale che partiva dal proprio gusto personale e che, prima di esplicitarsi in studio, veniva fuori durante il cosiddetto diggin’ in the crates. Pensi che al giorno d’oggi manchi questo modo di approcciarsi alla produzione?
«In un certo senso manca, però bisogna anche arrendersi al fatto che far musica al giorno d’oggi è molto diverso rispetto a quando ho iniziato io. Sono cambiati soprattutto gli strumenti ed infatti chi al giorno d’oggi usa ancora l’analogico? Lo stesso diggin’ in the crates oggi non si fa più nei negozi di dischi ma lo si fa comodamente dal computer di casa. Al tempo, anzi, andavi nei negozi di dischi per ascoltarli e decidere se comprarli, cosa che ora per me sarebbe solamente una perdita di tempo.»
Ad un certo punto del libro, dopo una miriade di nomi più o meno noti, ecco che mi imbatto in una figura femminile sconosciuta: Vaitea. Artista che a quanto pare al tempo non ebbe la fortuna che meritava ma che se ci provasse oggi probabilmente avrebbe più chences di riuscire. Come mai il Rap femminile solo ora riesce a diffondersi quanto merita?
«Allora, la Vaitea l’ho conosciuta proprio agli inizi della mia carriera quando tutti frequentavamo posti come il Berlin o il Muretto. La tirai in mezzo per collaborare ad alcune tracce ma era già chiaro allora sia che il mercato non era pronto, sia che scriveva testi “troppo intelligenti”, criptici. Madame ad esempio è molto criptica, scrive testi profondi, però ha un linguaggio molto vicino alla generazione di ragazzi che ascoltano il genere. E poi se la cava anche i contesti diciamo più melodici, per cui essendo più versatile è normale che piaccia a più persone.»
Un tempo il Rap invece che essere incentivato veniva affossato dalle istituzioni, e mi riferisco ad esempio a quando racconti che il comune di Milano aveva borchiato lo spazio dove si faceva break dance. Ora che è diventato mainstream, però, si può dire che lo scenario sia cambiato?
«È vero, oggi ci sono forse più iniziative però c’è sempre un disegno dietro. Disegno che poi potrebbe semplicemente avere i giovani dalla propria parte, anche se di fatto per il genere non si sta facendo nulla di significativo o migliorativo. Ed il fatto che sia il Rap sia mainstream vuol dire che girano molti più soldi, e dove girano i soldi si fa business. Per cui al massimo stiamo assistendo ad un business parallelo alla musica che per la musica non fa nulla di concreto in fondo.»
A parte Gemitaiz e pochi altri, la cultura del mixtape in Italia è molto ridotta. Negli ultimi tempi addirittura sembra quasi scomparsa. Pensi ci sia un motivo particolare?
«Guarda, bisognerebbe chiederlo a chi oggi si affaccia al mondo del rap per la prima volta! Gemitaiz ha fatto molti mixtape per via del suo background molto anni ’90 e perché quando ha iniziato il mixtape era fondamentale per farsi conoscere in giro. Erano un po’ quella che oggi si chiama promozione. Oggi invece chi vuole fare il rapper vuole essere famoso subito, senza compromessi o gavetta. Basta saper fare due rime buone che subito ci si sente il nuovo Sfera o il nuovo Ghali. E cito proprio loro due perché, se non lo sapeste, hanno fatto anche loro molta gavetta. Il problema principale ce l’ha la generazione che viene subito dopo di loro.»
Dopo averne addirittura sofferto per certi versi, pensi di esserti finalmente tolto l’etichetta di produttore dei Club Dogo? E prescindendo dal sì o dal no, ne vai ancora fiero?
«Ne vado fierissimo! A parte i primissimi album ho poi collaborato con tutta la scenda hip hop e non. Direi dunque che ce l’ho ancora ben cucita addosso!»
Verso la fine, il libro prende quasi la piega di un romanzo rosa per un vero Dogofiero. Pensi che se se venissero a cadere quelle maschere che il tempo e la fama hanno eretto di cui hai parlato, potremo prima o poi assistere ad una vostra riunione? E se invece arrivasse semplicemente un’offerta stellare?
«Il termine “reunion” mi fa abbastanza schifo. I Dogo non si sono mai sciolti. È un percorso ed ora siamo quello che state sentendo dalle esperienze discografiche personali. Domani chissà.»
Dopo anni e anni di incomprensioni, e penso a canzoni come Sgrilla o come Cocaina ad esempio, i Club Dogo sono finalmente stati capiti con NSPQDMF? In fondo, non considerando Status Symbol, l’ultimo album di un gruppo è spesso anche il suo testamento…
«Le canzoni che citi probabilmente non sono state capite da chi non ha mai seguito e ascoltato i Dogo. Certi giornalisti di quel periodo e detrattori ci criticavano ma giusto per rompere il cazzo. NSPQDMF è stato considerato anche da noi il disco più bello e non è un testamento. Vorrei che vedeste i Dogo come un gruppo che non ha mai chiuso con la musica e che vive ancora oggi. Non cercate di convincermi che siamo finiti.»
Dopo qualche anno di “confusione”, pensi che la realtà Dogozilla Empire abbia finalmente trovato la sua dimensione con l’attività di scouting e management di nuovi artisti, oltre che continuare ad essere un importante roster di produttori?
«Non sono mai stato pretenzioso su Dogozilla. Ho sempre scelto artisti che in qualche modo mi hanno colpito. Qualche volta funziona altre volte no però ci proviamo. Oggi non cerco solo produttori come agli inizi ma artisti di qualsiasi tipo.»
E questo consolidamento nell’universo dello scouting e del management, pensi che possa essere avvenuto grazie soprattutto alla scoperta di un talento cristallino come Vegas?
«Vegas è sicuramente l’artista con cui facciamo più attività perché ha creduto nel nostro lavoro e viceversa. Lavoriamo continuamente per trovare nuovi talenti e sicuramente non é semplice. Tutto funziona quando alla base c’è voglia di costruire e non solo voglia di mettersi 100 euro in tasca.»
Abbiamo parlato della prima pagina e come non soffermarsi anche su l’ultima? Il libro infatti si chiude con una sentenza:”Il tocco di Mida non si è esaurito”. Cosa ci riserva il futuro da parte tua?
«La musica dura finché si ha voglia di farla non c’è una scadenza. In cantiere ho sempre un sacco di cose. Per il momento preferisco lavorare su brani singoli come ad esempio Cos’è L’Amore e non su un album, ma spero arrivi presto anche quello!»
Anche noi speriamo che arrivi presto un nuovo disco targato Don Joe e invitiamo anche voi a leggere Il Tocco Di Mida perché, se vi piace il Rap, questa è parte della storia che ha concorso prima al cambiamento e poi all’esplosione del genere. Con tutti i pro ed i contro che ne sono scaturiti.
Fateci sapere cosa ne pensate. Per acquistare Il Tocco Di Mida di Don Joe cliccate QUI.