Da un paio di settimane è uscito il nuovo album omonimo dei Club Dogo, un momento aspettato per dieci anni da fan e addetti al settore. Ci siamo presi un po’ di tempo per ascoltarlo con attenzione prima di scrivere la nostra recensione.
Club Dogo: prosegue la legacy del gruppo più influente degli ultimi 20 anni del rap italiano
Per scrivere la recensione di Club Dogo, abbiamo deciso di affrontare alcuni aspetti precisi:
- Background
- Reunion
- Club Dogo, il disco
- Le produzioni
- Le barre
- Quello che ci è piaciuto
- Quello che forse manca
- Marketing
Il background
Partiamo ad analizzare il disco considerando il background del Club Dogo. Come siamo arrivati a un album di inediti dei Club Dogo nel 2024 dopo ben dieci anni di attesa?
Quando il progetto Club Dogo fu messo in pausa, nell’ormai lontano 2015, fu presa probabilmente la scelta giusta. Il rap italiano era in una sorta di stallo dove occorreva piegarsi sempre più alle regole del mainstream abbassando il livello tecnico per trovare il consenso di un pubblico generalista che sì, voleva sentire il rap, ma apprezzava soprattutto quello edulcorato passato dalle radio. I Club Dogo, dalle origini hanno sempre rappresentato la controcultura, l’opposta fazione, che nel corso della loro discografia si era dovuta un po’ piegare alle logiche di mercato. Il frutto di questo processo lento e inesorabile furono gli ultimi due album dei Dogo: Noi Siamo Il Club (2012) e Non Siamo Più Quelli di Mi Fist (2014), considerati da alcuni come i due dischi peggiori della loro discografia ma, allo stesso tempo, quelli con il migliore risultato commerciale, con un Platino ciascuno.
Eppure, tutto ciò che ha seguito Che Bello Essere Noi, ai fan dei Club Dogo degli esordi è sempre parso come un continuo abbassarsi del livello tecnico e lirico, con contenuti sempre più rari.
Allo stesso tempo, il rapporto tra i tre Dogo sembrava più freddo e distaccato, sembrava quasi che si trovassero a scrivere un disco assieme solo per doveri contrattuali. Ben diverso rispetto ai periodi d’oro, nei quali assieme alla Dogo Gang scrivevano per necessità di cronaca delle loro vite.
A parere nostro, quindi, la separazione consensuale del 2015 è stata motivata e comprensibile, con ciascuno dei tre protagonisti che si è preso lo spazio necessario per seguire i propri progetti personali. Se per Guè la carriera solista è decollata, non si può dire altrettanto di Don Joe e Jake La Furia. Certamente hanno trovato la loro strada, ma non hanno più raggiunto i traguardi commerciali dei periodi precedenti e del loro collega.
In realtà i Club Dogo non si erano mai “sciolti” nella maniera più classica. Non ci sono mai stati comunicati in merito, non ci sono mai stati motivi reali di litigio tra i membri e non era mai stata esclusa la possibilità di una reunion in un futuro, a patto che ci fossero i requisiti e la volontà di tutti e tre i membri di rimettersi all’opera assieme.
Qualche mese fa i pianeti si sono allineati e le tre teste del cane sono tornate a lavorare assieme per la realizzazione di questo tanto atteso disco.
Le condizioni per la reunion
Nel corso degli anni, si è venuta a creare una grande nostalgia dei tempi d’oro dei Dogo, quasi a dimenticare gli ultimi due dischi, che non avevano soddisfatto proprio tutti. Eppure i tre Dogo per tanto tempo non sembravano dell’idea di riprendere il percorso collettivo. Sono sempre parsi piuttosto schivi sull’argomento e quando interpellati sulla questione si limitavano a dire che ci sarebbero dovuto essere le condizioni giuste.
La carriera solista di Guè per tanti anni è stata un fiume in piena, impossibile da arrestare. Jake invece è sempre parso come il migliore della classe a cui manca la voglia (e la Fame…) di mangiarsi per davvero la scena. Ottime strofe e ottima tecnica, ma assenza di un progetto solido, supportato adeguatamente dalla label. Per tanti anni è diventato “quello dei pezzi reggaeton” o quello di Radio 105, quasi a far dimenticare tutta la splendida musica che aveva fatto negli anni passati e che continuava fare nei dischi ufficiali.
Don Joe da parte sua si è concentrato sul proprio studio e la Dogozilla Empire, realizzando anche tre producer album oltre a tante splendide produzioni per altri che lo hanno impegnato nel corso degli anni. Dei tre Dogo è sempre parso quello più legato al suo passato eppure, anche lui, non è mai sembrato così smanioso di riunire i due MC sulle sue produzioni.
Ma cos’è successo? Per quale motivo i Dogo hanno deciso di riunirsi?
Una grossa spinta a parere nostro l’ha data Emis Killa, che ha forzato Jake a ritrovare sé stesso, con 17. In questo disco, Jake è tornato a rappare forte, dimostrando di avere ancora molto da dire sul beat, come ampiamento fatto in Ferro Del Mestiere, probabilmente il suo miglior album solista, nel quale il rap è tornato protagonista, tralasciando reggaeton, ritornelli e pezzi radiofonici (eccetto forse Indiani e Cowboy).
D’altra parte anche Guè, dopo i suoi tantissimi dischi e featuring, con il passare degli anni ha raggiunto uno status di street-legend senza età e il crescendo qualitativo dei suoi recenti dischi ne è la prova. Probabilmente Fastlife vol.4 è stato la chiave: uno dei suoi progetti migliori della carriera che da una parte faceva leva sull’operazione nostalgia del nome, ma d’altra parte era trainato da pezzi puramente rap.
Possiamo dire che negli ultimi anni, a certi livelli alti del music business nostrano, sia tornato in forza il rap fatto “in una certa maniera”, ovvero quello basato su rime, cassa rullante e sample. Ovviamente Jake e Guè, pur in maniera separata, hanno contribuito a questo trend con i loro progetti citati sopra.
Insomma, il rap negli ultimi anni è tornato a farsi sentire anche ad un pubblico più ampio, Jake e Guè sono tornati a rappare come dei carrarmati e Don Joe ha semplicemente unito i punti.
Dopo vari tentativi di avvicinamento si sono chiusi in una appartamento per realizzare il sogno di ogni zanza: il nuovo album dei Club Dogo.
Club Dogo, il disco tanto atteso
Ma veniamo al dunque. Com’è l’ultimo album omonimo dei Club Dogo?
A parere nostro, di gente cresciuta con le loro rime, il disco spacca. Lo abbiamo ascoltato tante volte in queste settimane e siamo sempre più convinti che sia un album no-skip. Un disco all’interno del quale non ci sono tracce al di sotto delle altre. Un disco che ha esaudito le speranze di noi zanza un po’ dubbiosi, perché si sa, una reunion talvolta può anche essere una delusione.
Spesso la nuova musica non raggiunge il ricordo del passato e nei fans rimane sempre un po’ di amaro in bocca. Nel caso specifico dei Club Dogo avevamo anche una leggera paura che una loro reunion potesse magari concretizzarsi in un disco ad appannaggio commerciale, senza considerare la loro legacy. Fortunatamente così non è stato e i Dogo sono tornati con un album che per certi versi è anche al di sopra delle nostre aspettative.
Le produzioni di Don Joe
Se il disco Club Dogo ci è piaciuto così tanto, bisogna ringraziare prima di tutto Don Joe. Nonostante sia un producer super versatile e in grado di realizzare beat di ogni genere, per questo disco ha ristretto la gamma, affinando le sue capacità a realizzare basi perfettamente omogenee tra loro, assolutamente attuali ma caratterizzate da un costante richiamo al passato.
Il suo metodo di produzione parte come nella più nobile storia dell’hip-hop, dall’uso di sample. La ricerca curatissima del Don ci permette di sentire omaggi ricercatissimi provenienti principalmente dall’inizio degli anni 70. Per rendere omaggio al grande lavoro svolto, ci sembra giusto citare tutti i campioni utilizzati nel disco.
All’interno di In Sbatti troviamo una ricercatissima colonna sonora di Coraggio Fatti Ammazzare mentre in Malafede troviamo un molto più riconoscibile sample di Sei Mio di Nada.
Anche in C’era Una Volta In Italia viene usata una colonna sonora, nello specifico quella di La Ragazza di Via Petrovka, che già era stata usata da Pete Rock qualche anno fa, insieme alle drum di Take Me to the Mardi Gras di Bob James, che a sua volta era già stato omaggiato dagli N.W.A.
King of the Jungle oltre all’omaggio a Note Killer, si basa su Mini Bus (On the Telephone) di Barrington Levy. Nato per Questo, invece, prende spunto da Long Red dei Mountains.
Restando sui sample più ricercati, citiamo Mafia Del Boom Bap che campiona A Christmas Camel dei Procol Harum, così come Indelebili che campiona B Minor di Clydie King, come già avevano fatto Westside Gunn e Conway.
Il sample che forse tutti avete riconosciuto invece è stato Crime of the Century dei Supertramp, presente in Soli a Milano, che immediatamente ci riporta alla memoria Breathe di Fabolous, che già aveva sfruttato lo stesso campione.
Unica nota stonata, se così la vogliamo chiamre, da parte di Don Joe è stata la produzione di Tu Non Sei Lei, basta su Kilowatt Kit, un kit presente nell’espansione Burnt Hues di Native. Non che sia illegale, come dichiarato da qualcuno, piuttosto uno del suo livello in queste situazioni può fare sicuramente un passo in più. Ad ogni modo, il beat suona molto bene nel complesso, quindi non ci sentiamo affatto di condannarlo.
A prescindere dall’origine del campione utilizzato, la maggior parte dei beat è strutturato in maniera prettamente old-school, richiamando alla mente i beat di Don Joe che abbiamo amato nei primi tre dischi del gruppo. Avete presente ad esempio il beat di La Notte Che Rovesciammo L’Ordine? Bene, potrebbe benissimo essere parte di questo progetto. Questo a dimostrare come la produzione di Don Joe sia un’opera senza tempo e che nonostante i 20 anni trascorsi le doti di uno dei nostri producer preferiti non si sono per nulla appannate.
Il disco, comunque, pur mantenendo chiari i richiami al passato, non suona per niente obsoleto. Per tutto il resto ci sono Jake e Guè.
Le rime di Guè e Jake
La parte principale di un disco rap, per definizione, sono le rime. E obiettivamente in questo album Jake e Guè ne hanno cacciate veramente tante.
Il tema prevalente è la vita di strada, sempre narrata al passato o la vita dei compagni di avventura che ancora questa vita la fanno. I due Dogo riescono a mantenere credibilità in tutto quello che dicono, anche quando ostentano il loro status. Non mancano le perle di alto livello o la rivendicazione dello scettro di Re di Milano. Anche quando lo fanno con spocchia, tutto sommato non ci annoiano.
QUI, se volete, potete trovare quelle che per noi sono le migliori barre del disco.
Non è comunque nostro intento lodare il disco dei Dogo a tutti i costi. Obiettivamente, ci sono anche alcuni episodi che abbassano lo standard (ad esempio le rime “para per i guai/Paraguay“, oppure “kong/song” sanno sicuramente di trito e ritrito), ma sono comunque una percentuale irrisoria. Quelle valide sono fortunatamente di un numero nettamente maggiore e, visto di chi stiamo parlando, non ne siamo affatto sorpresi.
Quello che ci è piaciuto
Premesso che il disco (come avrete capito) ci è piaciuto, vediamo di evidenziare quali sono gli aspetti che abbiamo gradito di più.
In primo luogo la direzione artistica. Come dicevamo, i Dogo non sono mai stati caratterizzati da un suono solo. Abbiamo visto nella loro discografia passare da pezzi street a pezzi dance. Da pezzi di critica sociale a inni della vita di strada. Sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista di contenuti, hanno realizzato brani molto diversi tra loro. Per questo all’annuncio di un loro ritorno, non potevamo essere sicuri di quale direzione artistica avrebbe preso il progetto. Come dicevamo, il ritorno in auge del rap più puro sicuramente ha aiutato i tre Dogo ad allinearsi su questo stile musicale che, a parere nostro, è anche il tipo di rap che a loro riesce meglio, da sempre.
Altro aspetto che abbiamo gradito sono i featuring. Al giorno d’oggi spesso muovono il mercato più che l’autore stesso di un disco. I Dogo non hanno avuto bisogno di questo escamotage e hanno deciso di tenere il numero di ospiti al minimo. La presenza di Marracash era indispensabile, per quello che ha rappresentato nella storia della Dogo Gang e per il grande artista che è saputo diventare. Altrettanto gradita la presenza di Elodie: obiettivamente si tratta di una grande voce, fondamentale per arricchire la prima traccia da passare in radio. La sua presenza comunque non è invasiva e non snatura assolutamente la crudezza del disco.
Più controversa è la presenza di Sfera Ebbasta. Non tutti hanno gradito la strofa del rapper di Cinisello, in quanto un po’ troppo diversa dal resto del progetto. Ai primi ascolti la sua presenza può sembrare un po’ fuori luogo, ma più si ascolta il brano, più la si comprende. Le citazioni portate da Sfera fanno il cerchio con la ottima VDLC presente nel suo ultimo disco, ricevendo di fatto la benedizione dei Dogo a proseguire la legacy iniziata da loro stessi una ventina di anni fa. Se fino a dieci anni fa i ragazzi in piazza ascoltavano i Dogo, oggi ascoltano Sfera (o simili). Che vi piaccia o meno, è lui l’erede prescelto.
Manca qualcosa a Club Dogo?
Un album no-skip non per forza è un disco da 10 in pagella. Questo non vuole togliere nulla alle 11 tracce che compongono l’album, che ascoltiamo in loop da diverse settimane. Piuttosto, per dargli il voto pieno, ci sarebbe potuto essere qualcosa in più.
Se avessimo la lampada del genio a cui chiedere il disco perfetto dei Dogo, avremmo apprezzato innanzitutto una traccia un po’ più introspettiva, una traccia in grado di farci cadere una lacrima. All’interno di questo disco ci sono tante barre riflessive e intense, ma manca una vera e propria traccia in grado di commuoverci. Nella loro discografia, le tracce più iconiche in tal senso sono state Phra o No More Sorrow. Allo stesso tempo manca una vera e propria traccia d’amore, come Tornerò Da Te., ma non è che ne abbiamo sentita così tanto la mancanza. L’effetto nostalgia perdura per tutta la durata del disco, ma manca un brano dedicato al passato come 10 Anni Fa. A essere sinceri, mancano anche la traccia “ignorante” o affine alla dance che hanno reso famosi i Dogo al mainstream. Non avevano bisogno di inserirle nel disco, dato che non hanno più la necessità di passare in radio per farsi conoscere, ma obiettivamente per certi versi ci avrebbe fatto piacere sentire di nuovo i Club Dogo in un club, come negli anni ’10.
Nel complesso possiamo dire che eccetto King Of The Jungle, manchi qualcosa per rompere la monotonia tematica e di suoni degli altri dieci brani. Nonostante sia esattamente quello che ci piace, il disco per 10 tracce su 11 scorre in maniera piuttosto costante, con Jake e Guè che non si spostano mai dalla loro zona di comfort nella quale si sono seduti. Da lì ruggiscono e urlano il loro domino sulla musica attuale, ma non si spostano dal posto in cui vogliono stare. Chiaramente questa è una scelta mirata, non è una negligenza e, anzi, visto il risultato va più che bene così. Ma per raggiungere un ipotetico – e non richiesto – 10 in pagella, anche solo un paio delle tracce sopracitate sarebbe potute essere la ciliegina sulla torta.
Dal punto di vista dei featuring, come dicevamo prima abbiamo apprezzato la scelta di averne pochi e mirati. Allo stesso tempo sentiamo la mancanza dei membri della Dogo Gang che avrebbero reso perfetta la reunion più attesa degli anni ’20: dovremo magari aspettare una deluxe per vedere esaudito questo desiderio? Ne abbiamo parlato QUA.
Una Grande operazione di marketing non avrebbe senso senza un grande disco
Dopo aver lodato i tre Dogo, facciamo ora un applauso alla Universal e al management, che con la reunion dei Dogo ha messo in piedi una delle più grandi operazioni di marketing legate all’hip-hop della storia italiana.
La registrazione del disco è stata tenuta miracolosamente in segreto (per nulla scontato di questi tempi) e la gente al momento dei primi teaser su Instagram non sapeva davvero cosa aspettarsi dal disco. L’annuncio dei primi 3 forum ha scatenato una follia collettiva per accaparrarsi i biglietti. I primi 3 non bastavano, sono state aggiunte subito altre date, poi altre ancora per arrivare a un totale di 10 date, andate quasi completamente sold-out nel giro di 12 ore. Il tutto prima di annunciare il disco. La gente non sapeva ancora se ci sarebbe stato un nuovo album o solo una celebrazione live del passato. Questa operazione ha scatenato una crescente aspettativa intorno ai Dogo che da un momento all’altro sono passati da essere un gruppo in pensione rimasto negli iPod di qualche trentenne, ad essere il gruppo più in hype del momento.
Chiaramente l’hype da solo non basta a creare un successo. Infatti all’uscita del disco i pareri sono stati piuttosto concordi ad affermare di trovarsi davanti uno dei migliori album della discografia dei Dogo, a lottare per il podio con Mi Fist, Penna Capitale e Vile Denaro. La solidità del progetto di marketing ha infatti preso forma al momento della release di un disco così concreto e solido.
La promo non si è conclusa con la pubblicazione del disco, ma è proseguita con il grande successo dei pop-up store a Milano e l’annuncio di San Siro. La coronazione alla carriera dei Dogo. Il successo che meritavano già 20 anni fa.
Se il disco ha avuto successo, se sono stati venduti quasi 200mila biglietti ai live, se il merch è andato sold-out non è solo merito del marketing, ma è soprattutto merito del ritorno dei Club Dogo, con uno dei dischi migliori della loro carriera.