BLAME IT ON BABY non è un capolavoro, ma chi ne è rimasto deluso ha sbagliato le sue valutazioni.
Il nuovo album di DaBaby si intitola BLAME IT ON BABY, è uscito venerdì 20 aprile e se ne è parlato molto sui siti specializzati e non: sia per la visibilità – anzi chiamiamola col suo nome, sovraesposizione – dell’artista, sia perché è stata una delle uscite musicali più rilevanti durante il lockdown generale. I giudizi si dividono principalmente in due umori: la delusione di chi aspettava qualcosa di più elaborato o sorprendente; l’esaltazione di chi ritiene l’artista uno dei migliori del game per la sua capacità di pubblicare canzoni come fossero tweet.
Pur non entrando in merito dei gusti personali, che pur non sono un aspetto secondario, ma la ragione che guida cosa ascoltiamo, cerco di spiegarvi come secondo me si può apprezzare BLAME IT ON BABY e avere opinioni più moderate a riguardo.
BLAME IT ON BABY è stato pubblicato a sorpresa o quasi. Il primo annuncio è arrivato ad una settimana dalla relase con un’emoji cd tweettata dall’artista che ha sorpreso un po’ tutti, sia perché KIRK era uscito circa sei mesi prima, sia perché pubblicare nuova musica durante il lockdown può significare vendere molte meno copie rispetto al proprio potenziale (e sicuramente per DaBaby il lato economico non è secondario). Molti si aspettavano di ascoltare qualcosa di diverso dal classico sound del rapper di Charlotte perché nel singolo Find My Way – uscito il 3 aprile – aveva sfoderato un lato più melodico con un ritornello cantato e un sample di chitarra che guidava la base.
Di fatto questa evoluzione non c’è nelle tredici tracce dell’album. Pur con un taglio più melodico in alcuni brani, simile a quello sperimentato in KIRK – la title track del precedente album, dedicata al padre – l’attitudine e il suono rimangono piuttosto simili al DaBaby che già conoscevamo. Come KIRK e BABY ON BABY non c’è un concept, un tema unificante nel progetto, ma un’aggregazione di tracce stile playlist. Lo scopo dell’album è sicuramente quello di intrattenere e far muovere chi lo ascolta, senza la pretesa di veicolare alcunché. Le liriche raccontano scorci della vita del rapper – o meglio, quel lifestyle che fa parte più di uno stereotipo, dato che un artista con il suo numero di live, featuring e brani che ha fatto uscire nell’ultimo anno probabilmente dovrebbe raccontare solo di studio session e aerei – e qualche considerazione abbastanza superficiale e già trita sul “lato oscuro” della fama.
Se siete rimasti delusi dai testi però probabilmente eravate finiti per sbaglio su questo album perché il lato conscious è stato praticamente sempre assente nei precedenti lavori. Detto questo non stiamo parlando di un artista superficiale, ma di quella che potremmo definire creazione del “personaggio DaBaby”. Il rapper gioca molto sulla sfrontatezza e sull’ostentazione del mostrarsi estremamente esagerato, fuori dalle righe, spesso anche in maniera molto autoironica (come si vede anche nei videoclip delle sue canzoni).
Personalmente a volte mi sfugge quanto sia costruzione e quanto convinzioni reali dell’artista. A tal proposito cito una sua intervista del 2019 a The Breakfast Club in cui, dopo essere stato criticato per la sue ripetitività, afferma di fare quel tipo di musica perché è quello con cui riesce ad intrattenere le persone, ma se volesse potrebbe fare un album conscious come quelli di J Cole – naturalmente, nel dubbio, lo attendiamo.
Oh Lord, Jetson made the same one
Il titolo di questo paragrafo è una citazione di un tweet che lessi in commento ad un sondaggio su quale fosse la migliore tag dei producer americani. Sintetizza bene una delle critiche che più spesso vengono elevate a DaBaby: “tutti i pezzi si somigliano”. Oh Lord, Jetson made the same one è una storpiatura della tag di JetsonMade, producer fidato dei suoi primi due album in studio e autore di quel suono che ha reso il rapper del North Carolina immediatamente riconoscibile. A rendere molti brani familiari tra loro, sono le basi di 808 di Jetson e il rap estremamente fitto ed incalzante che DaBaby propone su ogni tipo di strumentale.
La critica è legittima, ma fino ad un certo punto. Innanzitutto dall’uscita di BABY ON BABY a BLAME IT ON BABY sono trascorsi tredici mesi, un intervallo di tempo in cui è ragionevole pensare che un artista possa fare canzoni che suonino simili. Vero è però che in questi mesi DaBaby è stato sovraesposto, pubblicando un numero – non sono riuscito a trovare il numero esatto su internet – esagerato di versi, oltre agli album. Questo è il motivo principale per cui possa essere noioso ascoltarlo e suoni molto simile. Se così tanti artisti ti chiedono strofe è normale – forse – che si aspettino di avere la cosa per cui sei riconosciuto e riconoscibile e non qualcosa di sperimentale.
In BLAME IT ON BABY abbiamo solamente una produzione di JetsonMade, mentre la gestione primaria del suono dell’album è stata affidata a Dj K.i.D. Di fatto le strumentali sono differenti come sonorità rispetto ai precedenti lavori, ma il modo di rappare e l’attitudine rimangono inalterati, facendo sì che l’ironia e le critiche sulle canzoni sempre uguali proseguano. Nella title track DaBaby risponde a queste critiche, facendo vari switch della strumentale per dimostrare che può cambiare stile a piacimento.
“They be like ‘Why you switched the beat?’ Because my flow neat, n*gga
‘I thought he couldn’t switch the flow, how the hell he switchin’ the beat up?‘
They don’t know who they f*ckin’ with, do this sh*t with my feet up
Yawning on these n*ggas, sit back, go to sleep”
Ironia della sorte si nota solo di più come le somiglianze tra i brani non dipendano dal flow, ma proprio dal suo modo di aggredire la base e “rimbalzarci” sopra colmandola di sillabe.
Diamo i numeri di BLAME IT ON BABY
BLAME IT ON BABY è un successo commerciale con circa 124 mila copie vendute (naturalmente parliamo principalmente di conversioni di streaming in unità del disco) e l’esordio in vetta alla classifica Billboard.
Ad essere rilevante non è tanto il primo posto di DaBaby, vista la poca competizione – sul podio ci sono gli album usciti a marzo di The Weeknd e Lil Uzi Vert con 55 e 54 mila – quanto quel 124 mila raggiunto in periodo di lockdown, con meno promozione del disco e ovviamente acquisti di copie fisiche. Risultato importante, ma anche atteso. Il progetto precedente, KIRK, aveva conquistato pure la vetta della chart lo scorso ottobre con 145 mila copie.
L’album ha avuto anche un’ottima longevità, vendendo 416 mila unità ancora nel 2020 prima dell’uscita di BLAME IT ON BABY.
I numeri non misurano la qualità, lo streaming e internet ce lo insegnano e dimostrano ogni giorno, premiando spesso le cose più curiose e simpatiche, ignorando quasi sempre la qualità insita nelle cose più sofisticate e meno immediate. In questo caso però credo che diano il giusto riscontro ad un album che non è un capolavoro però sa intrattenere bene con i suoi ritmi incalzanti e la spensieratezza che comunica. Se avete ascoltato l’album aspettandovi un’evoluzione dell’artista, qualcosa di nuovo e sorprendente sarete rimasti delusi.
BLAME IT ON BABY va approcciato come il terzo capitolo di una saga culto: non sarà mai all’altezza del primo o delle aspettative che avete creato nell’attenderlo, però è un aggiunta che arricchisce il corpus totale, che se non ci fosse stata ne avreste sentito la mancanza.