Quanto abbiamo aspettato questo concerto? Finalmente Jpegmafia si esibisce per la prima volta su un palco italiano, senza mostrare il minimo timore di un pubblico lontano e di nicchia come quello del Circolo Magnolia la sera del 6 giugno.
Estasi e moshpit al concerto di Jpegmafia
Arriviamo, parcheggiamo e non c’è gente. Va bene che siamo in anticipo, ma probabilmente è colpa sua, di Peggy e della sua maledetta tendenza a spaventare il pubblico. Ricorda bene il titolo del suo ultimo album, joint project col gemello-maestro Danny Brown: Scaring the Hoes. E mentre Danny propaga weirdness in podcast e apparizioni televisive, Peggy accumula energia da usare in produzioni tanto idiosincratiche che risulta strana la mancanza di un neologismo musicale per definirle.
Dopo un breve scorcio dell’Idroscalo (con naturale smorfia al cartello “Il mare di Milano”) si spalanca il verde del Circolo Magnolia, che ha già conquistato la nostra stima per aver portato Jpeg in Italia e quindi si trova la strada in discesa. In realtà poi di gente davanti al palco con sostanziale anticipo ce n’é, panini, birra, atmosfera rilassata. Provo ad annusare rimasugli del Mi Ami Festival da poco trascorso e mi sembra di trovarne scampoli tra il pubblico.
Doppia apertura per l’esibizione di Peggy
Tre teste sul palco increspano l’aria del circolo e cominciano a richiamare chi finora stava seduto tra gli hamburger. Primo opening act della serata sono i DJ Ayce Bio, Marco Conti e Prev, con quest’ultimo che rappa pure qualche singolo su basi prettamente elettroniche, spesso acide. Qualcuno comincia a muoversi, lo spettacolo è apprezzabile, la luce comincia a digradare.
Verso le 21 una croce viene piantata sul palco: è la volta del Teamcro. Anche se dai social paiono appena formati, si tratta solo del nuovo debutto grafico, perché i Teamcro si esibiscono sia soli che in gruppo già da diverso tempo e contano rapper, cantanti e produttori con buona diffusione nell’underground come Deriansky, Deepho e 9den. Pure qua l’energia sale, certi pezzi funzionano meglio di altri (citiamo per forza Blur di 9den), ma un primo gruppo al centro della platea comincia ad esaltarsi. Arrivano le 22, arriva il buio.
Jpegmafia entra in scena come un pugile che ha appena messo al tappeto ogni avversario e a cui rimane solo godersi l’applauso. I cori ripetono “Peggy, Peggy” senza sosta e pure lui sembra sorpreso da tanta eccitazione. Un saluto, due parole e si inizia col caos. Jesus forgive me, I am a thot non è per forza una canzone da moshpit, eppure l’agitazione covata per l’ampio opening fuoriesce dalle gambe e dalla gola di ognuno di noi e le prime tre canzoni ribaltano lo scenario ovattato del Magnolia in un sussulto continuo.
Hazard Duty Pay!, Steppa Pig, Burfict. Peggy spende subito alcuni grandi banger del suo arsenale, compresi i brani di Scaring the Hoes che risultano purtroppo tranciati dall’assenza di Danny. Ecco forse mi aspettavo qualcosa in più da un concerto di Jpegmafia: uno con le doti di producer e mc del suo calibro avrebbe potuto lanciarsi in piccoli remix, sperimentazioni live, performance di strofe altrui. Quello che invece non manca proprio è l’esuberanza sul palco dell’artista, che a più riprese urla e lancia acqua agli spettatori galvanizzati.
Un paio di momenti di gratitudine verso il pubblico italiano fanno da transizione verso episodi più respirabili come il featuring in Chain On e Vengeance (shoutout a Denzel Curry d’obbligo) o la sempre fantastica interpretazione auto-tunizzata di Call me Maybe. In questa fase i moshpit si sviluppano sulla linea di canzoni poco adatte, con effetti quasi comici durante Bald! e What kind of rappin’ is this? Diamo anche un piccolo tributo al coraggio necessario nel portare ad un concerto Garbage Pale Kids, riuscendo oltretutto a coinvolgere i presenti.
Dopo poco più di un’ora scatenata, lo show si avvia verso il termine con una solida passata di Veteran (fenomenale il switch visual-sonoro in Rainbow Six) e per ultima una versione estesa di Lean Beef Patty che genera vortici all’interno della pista e lascia il mondo sudato e lucido sotto il ritorno delle luci, stavolta artificiali, di fine spettacolo. Alla fine non c’è bisogno di chiedere a nessuno se sia piaciuto o no, per una risposta serve fiato.