Quando un artista raggiunge così tanti consensi in poco tempo, o è una cometa passeggera o è destinato a fare la storia. Appena abbiamo ascoltato Ele A abbiamo capito subito che sarebbe diventata un voce riconoscibile della scena rap italiana, e il tempo ci ha dato ragione.
L’avevamo intervistata appena uscito Globo, e ora, a distanza di un anno, abbiamo avuto l’opportunità di fare una chiacchierata per farci raccontare Acqua, il suo ultimo EP (che abbiamo recensito qui). Con gentilezza e tanta umiltà si è raccontata in questa intervista per svelarci i retroscena della sua musica e ci ha anticipato qualcosa sul suo futuro.
Fare tutto in servizio della musica: intervista ad Ele A
Partiamo con una domanda per rompere il ghiaccio, ti va di raccontarci qual è stato il processo creativo dietro a questo EP?
«Acqua è un lavoro che nasce da una collaborazione stretta tra me e Disse, il mio produttore. Questo EP è stato sicuramente diverso da Globo che era fatto partendo già da delle produzioni sue su cui io poi scrivevo perché non avevo la possibilità di andare spesso in studio da lui. Acqua è stato ideato insieme da zero, tutti i beat sono nati mentre io scrivevo e c’è stato un supporto reciproco nel trovare le atmosfere ideali per comunicare la nostra visione del mondo».
Mi hai anticipato la prossima domanda. Di solito come gestisci il processo creativo? Nasce prima il testo e poi costruisci attorno la melodia o parti già da una base e poi ti lasci ispirare?
«Dipende, ci sono brani che nascono più per un’esigenza personale e altri più per esigenza musicale. Spesso la musica mi permette di esprimere cose che a parole non riesco a dire per questo la strumentale mi deve comunicare qualcosa di profondo, altrimenti l’ispirazione finisce. Questo è un po’ un limite perché non sono una di quelle persone a cui basta un loop di batterie per scrivere mille barre. Ho bisogno che si crei un insieme coeso tra il beat e le parole. L’idea dell’EP nasce appunto perché volevamo creare l’atmosfera giusta a questi testi, dove l’elemento concept è l’acqua e con Disse abbiamo lavorato a delle produzioni che ricordassero un ambiente acquatico».
Come hai già accennato, fin dagli esordi hai al tuo fianco Disse, come nasce la costruzione di un vostro brano? Come funziona questo lavoro che definisci ‘a quattro mani’?
«In Neve io ho suonato il loop di pianoforte e lui ha fatto le drums, oppure in Nodi io ho fatto gli accordi e lui è proseguito con la produzione. Io non sono capace di produrre, posso fare solo qualche accordo oppure dare lo spunto di una melodia, ma è Disse che poi fa quadrare i suoni. Diciamo che è un lavoro a quattro mani perché ci completiamo a vicenda, a volte sono io che do inizio a un brano e lui termina, a volte viceversa. La stessa cosa vale per le top line, io ne provo tante in studio e lui mi dice “questa spacca, questa invece no”».
Si sente infatti che c’è coerenza tra suoni e parole, nulla è lasciato al caso e il risultato è un lavoro di precisione per essendo un EP e non un album ufficiale. Si sente anche che nella tua musica le influenze musicali sono tante: c’è tanto rap anni ’90 ma ‘sporcato’ da altri generi che spaziano dal funk all’elettronica. Per questo mi viene da chiederti quali sono le tue principali influenze musicali in questo momento?
«Da quando è uscito, ascolto molto l’ultimo album di PinkPantheress e dentro al mio EP c’è tanta stratificazione e produzione ispirata da questo disco e dal lavoro che hanno fatto lei e il suo produttore. Per me, lei è una grande fonte d’ispirazione perché credo che sia una delle poche producer donna così famosa e ha una sensibilità diversa che è interessante. Credo sia importante dare peso a certe sensibilità dentro il panorama musicale di oggi, a maggior ragione se viene da un’artista che ha il pieno controllo della propria musica. Dopo un periodo di pausa, ho ricominciato ad ascoltare Faces di Mac Miller che forse è il mio album preferito in assoluto, e ultimamente sto anche recuperando la discografia di Sade. Insomma, tanta roba diversa ma che in un qualche modo sta influenzando il mio modo di fare e vedere la musica».
Cambiando discorso, se dovessi presentarti con una tua canzone quale sceglieresti e perché?
«Oddio non lo so, è veramente una domanda difficile. Questo EP mi ha permesso di presentare varie sfaccettature di me (e di Disse). Ogni brano di Acqua presenta più parti di me, non sono solo una persona depressa o una persona solo felice, sono fatta di più sfumature e complessità, quindi un brano che mi rappresenta non c’è. A questo punto direi, ascoltatevi l’EP per intero per comprendere meglio la mia personalità e la nostra visione del mondo».
A proposito di depressione, vorrei farti una domanda personale ma senza scendere nell’intimità dell’esperienza privata. In alcuni pezzi di Acqua parli di psicanalisi, per te la musica – e in particolare la scrittura – sono una valvola di sfogo, un aiuto?
«Totalmente. Quando a 12 anni inizi ad affrontare i primi problemi e le prime difficoltà ascolti per la prima volta un pezzo rap e ti senti capito, abbracciato da queste parole, la tua vita cambia. Chiunque sia profondamente innamorato di questa cultura come noi è d’accordo con questo. Per me il rap è stato questo, comprensione. E il complimento più grande che mi si possa fare è quando mi sento dire “grazie, la tua musica mi sta aiutando a passare un momento difficile, mi trovo nelle tue parole e mi sento capito” perché è la stessa cosa che è capitata a me prima di essere una rapper. Mi fa stare bene a mia volta, perché tuttora quando sono triste mi rifugio nella musica degli altri».
Secondo me i giovani che si approcciano al rap hanno oggi più consapevolezza della propria salute mentale anche in virtù al momento storico che stiamo vivendo. Soprattutto dopo Persona di Marracash anche nel rap italiano si è aperto il vaso di Pandora e molti hanno iniziato a parlare apertamente di questa tematica.
«Io in generale consiglio a tutti la scrittura, non solo in termini prettamente rap. Mettere nero su bianco i propri pensieri aiuta a riordinare il caos che si ha in testa, riesci a visualizzare i tuoi problemi e ti permette di analizzarli lucidamente. Per me la scrittura, in tutte le sue forme, aiuta molto, anche se capisco che possa essere difficile da approcciare inizialmente. Io consiglio di lasciarsi andare a questo esercizio, perché osservare per iscritto quello che passa per la testa può aiutare a decomprimere certe situazioni».
Passiamo ad argomenti più leggeri, io da appassionata di cinema nei tuoi testi ho trovato tante rime che si collegano ad alcuni film, tipo La Haine o Scarface. Qual è il tuo rapporto con il cinema?
«In realtà amo il cinema ma sono molto selettiva con i film. Se non sono sicura al cento per cento che un film mi possa piacere allora non lo guardo. A causa dell’immensa disponibilità e possibilità di scelta che abbiamo tendo a perdermi, quindi non guardo film tutti i giorni, ma sto cercando di recuperare i grandi classici. Anni fa mi piaceva di più la narrazione romanzata poi ho fatto uno switch e ora sono più attaccata al realismo invece, capita che preferisca guardarmi un documentario rispetto a qualcosa di fantascientifico. Ogni volta però che mi approccio al cinema mi rendo conto però quanto il rap sia influenzato da questo e ritrovare sullo schermo le citazioni delle canzoni che ascolto mi fa apprezzare ancora di più la musica».
C’è un film in cui ti senti rappresentata come artista?
«Oggi solo domande difficili. Mi piace molto Shutter Island ma non credo che un film su un pazzo possa essere la risposta giusta (ride, ndr). Mi sento affine alla sensibilità del cinema giapponese: sia l’animazione dello studio Miyazaki sia i grandi classici offrono dei punti di vista sulla realtà molto diversi dalla nostra mentalità e ci aprono a spunti di riflessioni diversi».
Ho notato che fin dal tuo esordio hai subito ricevuto l’appoggio e i consensi di esponenti di spessore del rap italiano, tipo Gionni Gioielli, Mistaman oppure Lucci. Mi ha fatto strano perché a volte capita che passino anni prima che un pezzo grosso della scena si accorga del valore di certi esordienti. Come l’hai vissuta questa cosa?
«Anche a me ha fatto strano, non me lo aspettavo minimamente. Non mi aspettavo che gli OG della scena riconoscessero subito quello che siamo e quello che facciamo, perché quando uno ha una carriera solida già avviata non è scontato che si interessi agli emergenti. Per me è stato un onore, perché per quanto siamo legati all’hip hop e al boom bap, nei miei progetti ci sono anche influenze elettroniche. Per esempio, quando è uscito Uno9999 che è un brano drum and bass (il primo ma non l’ultimo della mia carriera) non mi aspettavo ricevesse consensi dai più ‘puristi’ dell’hip hop e invece è piaciuto. Forse perché a livello di suoni la drum si riferisce un po’ all’atmosfera vintage del boom bap e in questo modo chi ascolta tanta roba anni ‘90 si può riconoscere anche in questo. È un po’ un cerchio che si chiude».
La mia era una domanda nata dalla curiosità perché a volte capita di interfacciarsi con esponenti di questa cultura legati ad un purismo eccessivo, invece tu hai raccolto consensi unanimi, tutti meritati. Nella mia opinione rappresenti l’anello di congiunzione tra il rap più tradizionale e la novità musicale.
«Guarda, io non potrei essere più felice soprattutto perché non era una cosa scontata e per me questo supporto è un onore».
A proposito dei big della scena, ci sono dentro al rap italiano una o più figure che ti hanno segnato e ti hanno fatto dire quando li hai sentiti per la prima volta “io voglio fare quella cosa lì”?
«Il primissimo è stato Gemitaiz perché è stato anche il mio primissimo approccio al rap. Quando avevo 11 anni un mio amico di Varese mi aveva passato QVC2 in mp3 e lo ascoltavo tutti i giorni. Mi ha fatto lo stesso effetto di una terapia, lui è bravissimo a trasmettere le emozioni in rima per questo per me è un riferimento nella scrittura. Mattak è stato un altro importantissimo stimolo per me, appena l’ho ascoltato ho pensato “questo è un alieno” infatti i miei primissimi pezzi erano super tecnici perché cercavo di assomigliare il più possibile a lui. È anche uno dei primi che mi ha supportata, per me è una figura importante che ringrazierò sempre. Più in là, altre figure che mi hanno formato a livello di scrittura e che mi hanno fatto salire la fotta sono stati Izi, Madame e i primi album di Rkomi».
Domanda basic: qual è il feat dei tuoi sogni?
«Ora come ora, tra i vivi, ti direi PinkPantheress perché credo che la sua voce si fonderebbe bene con la mia. Non mi viene in mente nessun rapper in realtà, in questo momento mi piace l’idea di collaborare con dei cantanti».
Parliamo dei banco di prova per tutti gli artisti. Ti avevamo intervistato un anno fa che era appena uscito Globo, com’è cambiato il tuo rapporto con i live rispetto a un anno fa, se è cambiato?
«Facendo live si impara tanto, anche se non ho un’esperienza decennale sto imparando a gestire meglio il tutto. In primis sto facendo lezioni per gestire la voce, e poi una grande lezione di vita è stata non farsi influenzare l’umore dal pubblico: se il pubblico è carico ti carichi ma se chi c’è sotto al palco non risponde troppo anche tu ti butti giù e io mi facevo condizionare molto. Mi spiego meglio, a volte uno assiste a un concerto ed è perso nei suoi pensieri o ha avuto una brutta giornata. Prima appena incrociavo lo sguardo di qualcuno che non sembrava preso dal mio live mi imparanoiavo e pensavo “sto sbagliando tutto, adesso vado via”. Ora invece sono più tranquilla perchè sto cercando di imparare che sono io che devo creare la mia sfera personale, per prima cosa devo fare tutto in servizio della musica e non del responso del pubblico, e poi il resto viene da sé».
Da Lugano, all’Italia e ora in tutta Europa, questa estate porterai il tuo live anche allo Sziget a Budapest e a Londra. Che differenze hai percepito in termini di accoglienza tra il pubblico italiano e quello europeo?
«Una differenza che mi sembra di avere notato è in termini di fisicità. Noi italiani tendiamo a rimanere fermi con le gambe e a muovere molto la testa o le braccia, utilizziamo la voce con cori da stadio, ma siamo più ‘chiusi’ a livello fisico, quasi come fossimo in imbarazzo in certe situazioni. Invece all’estero, soprattutto i francesi, sono dei matti, si muovo molto di più, saltano, corrono, hanno un modo di viversi la musica differente e sono più ‘liberi’. Questa cosa da una carica assurda perché ti mette a tuo agio».
A proposito di francesi, uno dei tuoi primi live è stato in Francia…
«Parigi è stata la data più bella, vedere delle persone che non parlano la mia lingua cantare a memoria tutte le canzoni per me era assurdo. Inoltre era il mio primo live tutto mio, con un pubblico venuto solo per me, non ero l’apertura di qualcuno o nella lineup di un festival. All’inizio pensavo di non vendere nemmeno quattro biglietti, quando il concerto è andato sold out non potevo crederci».
Siamo arrivate alla fine dell’intervista. È un po’ infelice chiedere ad un artista quando uscirà il disco nonostante sia appena uscito l’EP, però la curiosità è tanta… vuoi goderti questo momento o hai già la testa su un nuovo progetto?
«Godermi le cose non è molto nella mia natura. Nonostante io e Disse abbiamo chiuso i pezzi giusto qualche settimana fa, stiamo già lavorando all’album».
Allora possiamo dirlo ufficialmente, Ele A sta lavorando al suo primo disco?
«È ancora tutto molto fresco e astratto, ma io e Disse sentiamo il bisogno di fare qualcosa di più libero, vogliamo fare musica per necessità e per il gusto di farla, senza pensare a un concept o a una tracklist, cosa che in un EP non è possibile perché quando ci sono poche tracce deve essere tutto collegato. Ora sentiamo il bisogno di libertà, e abbiamo già iniziato a fare qualcosa di nuovo. L’album è una tappa già scritta ma davvero, non vedo l’ora di mettermi a lavorare al disco. Quindi sì, arriverà».
Ci salutiamo sorridendo con la consapevolezza che Ele A ha in serbo ancora tanta musica da farci ascoltare e noi siamo entusiasti di vedere cosa le riserva il futuro.