“La maggioranza dei me ha radunato che è pronta a tendermi l’agguato”.
Quanti artisti possono nascondersi dietro ad uno stesso pseudonimo? Quante emozioni possono essere contenute in un unico album? Qual è il numero massimo di contaminazioni che possono essere introdotte in un pezzo?
Se siete convinti di poter rispondere ad una sola di queste tre domande, allora quello che state per leggere potrebbe non piacervi.
Niccolò Venturini, in arte NIKKÉ, è un cantante e compositore di stampo Hip Hop, anche se questa definizione toglierà il prurito solamente agli amanti della categorizzazione. A tutti gli altri (me compreso) piace di più affermare che l’Hip Hop è il genere, in percentuale, maggiormente richiamato, ma si tratta di una maggioranza relativa e non assoluta. Rap, Elettronica, Raggae, Funk, Rock e Trash ambiscono a quel 51%, ma nessuno riesce a strapparlo.
L’album Tutti i Me nasce dalla necessità di mettere insieme diverse emozioni, le quali”, come ci confessa lo stesso Niccolò, “vengono tradotte in parole e musiche giustamente diverse”.
È per questo che la tracklist stessa si basa su un percorso emotivo di certo né semplice né lineare: canzoni di rabbia, canzoni di tristezza, canzoni più allegre e demenziali, intervallate da skit quanto mai azzeccate e da una traccia di chiusura del cerchio.
Il background dell’artista è di stampo psicologico, esattamente come il fine del progetto, e questo dona all’album un aspetto solerte e meno canzonato di quanto possa apparire ad un primo ascolto. La copertina stessa raffigura le personalizzazioni delle varie emozioni precedentemente descritte facenti da contorno ad un’identità neutra e più equilibrata che si fa un “innocuo” selfie. La copertina vuole richiamare anche il concetto di Autoanalisi/Autoguarigione (notate la presenza non casuale del camice della figura in primo piano) alludendo al percorso della scrittura e della composizione di canzoni come processo curativo.
Un argomento, quello della salute mentale all’interno del mondo HipHop, di cui abbiamo già discusso in maniera approfondita in questo articolo.
Questa matrice umanistica e scientifica allo stesso tempo non passa inosservata in nessun testo, seminando citazioni di settore ma anche di facile comprensione per chi non familiarizza con queste, come:
“Lo stile d’attaccamento soggettivo implicato e la consapevolezza che il futuro è nel passato”
Se siete amanti di questi prodotti ibridi troverete qualcosa che vi lascerà di stucco, con rimandi dal punto di vista soprattutto metrico, ma anche linguistico, a Caparezza, con una varietà di suoni e di “accenti” tipici dei Sud Sound System e con la voglia di sperimentare e mischiarsi che in pochi, come i Negrita ad esempio, hanno recentemente messo in gioco.
Un aspetto sorprendente dell’album è come il ripercorrere traccia per traccia queste montagne russe di emozioni porti veramente ad una selvaggia alternanza di voglia di urlare, di ballare o di chiudersi in camera. Se ascoltato profusamente è veramente capace di imporsi.
L’inizio con “The evolution of involution” ci butta subito in un oceano di suoni Giamaicani e di effetti completamenti diversi per mostrare la falsa riga di tutto l’album (come le voci dei bambini, il colpo di pistola susseguente o le risate malefiche).
“Voglia di niente” inizia con un dialogo proveniente da Waking Life, film estremamente particolare che è stato anche candidato al Leone D’Oro e che è stato realizzato con la peculiare tecnica del rotoscope:
“Sarà l’età che influenza la mente, sarà la droga che il tronco secerne
Sarà la storia, il passato, il presente, sarà che abbiamo una voglia di niente!”
Rick Rubin si impossessa della produzione in “Al funerale”, dove inizia ad affiorare la profonda rabbia, ancora mischiata a delusione e tristezza:
“La sofferenza è personale come la moralità”
“Alla mentalità”, con un ritmo da tarantella, segna il primo stacco netto ed elimina le poche certezze che si andavano formando in questo inizio. Si prosegue con “É personale”, che comincia a tirare in ballo dinamiche sociali contemporanee:
“La compassione è umiliante, specie in questo giorno di coscienza collettiva di umiltà”
“Rigurgitando canto” è la traccia meno “rap” del disco ma con tratti ambient, elettronici e anche indie. Molto interessante e suggestiva, si tratta di una rivisitazione dell’omonima canzone del gruppo punk/hardcore melodico Punklastite, di cui Nikkè stesso era il frontman nel 2007. “Trauma da placenta” è anch’essa molto più intimamente leggera e lontana dal resto delle tracce. Qui si respira più un’atmosfera stile 883 per leggerezza e orecchiabilità dei suoni, volutamente creata per spiegare quella “pace dei sensi” che “è nella furia degli elementi”.
“La culture” offre subito una bella stemperata con techno e ritmi serrati aprendo ad una spiegazione del termine cultura, tratta dall’intervista al famoso scrittore francese Daniel Pennac, o meglio alla difficoltà di poter definire un vocabolo così inclusivo.
In “Si No Boh” continuano le influenze caratterizzate da basi potenti, distorsioni e suoni elettronici (e musica classica inserita un po’ a tradimento):
“So quello che ti infesta, debelli la foresta di sinapsi con alcolici, poi che ti resta!”
“Sublimazione” prosegue su questa falsa riga aumentando non poco i bpm e riducendo le prese di fiato. Si necessita quindi di un interludio per far riposare le corde vocali, così arriva “Surrealism”.
Quello che segue è semplicemente “Gisello & Gisella”. Il titolo da già un indizio, poesia allo stato puro con cinquecento kili sopra il beat. La voglia di divertirsi e divertire affrontando un tema comunque delicato e attuale come l’obesità è contagiosa e capace di creare un equilibrio all’interno del pezzo che invece è molto difficile da replicare. Poi il “Ti amo piccola” finale è perfetto.
“Strike” riprende le atmosfere martellanti di prima e ci consente di tirare nuovamente il fiato, per prepararci all’arrivo di “Un casino”, che è effettivamente un bel casino di suoni e voci.
Forse questa è una pecca dell’album, è proprio nelle due tracce sopracitate che il filo del discorso si perde un po’e il ritorno all’elettronica sembra più un passo indietro che un passo in avanti, mentre sarebbe potuta essere più d’impatto una costruzione diversa del finale dell’album. Un cambiamento nell’ordine delle tracce o l’utilizzo di un differente set di strumenti avrebbe potuto porre rimedio a questa piccola zona grigia di un album che comunque, ed è importante dirlo, riesce ad esaltare tanti, ma veramente tanti, stili diversi.
L’ultima traccia, la numero quindici, è (giustamente) “La scelta di tutti i me”; con un loop di chitarra acustica davvero molto rilassante e introspettivo.
“Ed oggi provo a tracciar l’ogiva, dei me di cui schiuma ancor mi priva”
La paura di non poter scegliere il proprio sé e la volontà in qualche modo di permettere semplicemente che la scelta venga fatta, lasciandosi quasi naufragare in un mare di pensieri, è fortemente in contrapposizione con ciò che la canzone sembrerebbe lasciar filtrare, ovvero tranquillità. Si tratta di una bella metafora della lotta interiore del protagonista, ma che è in realtà anche di tutti noi, utile a far passare un messaggio non di poco conto.
Non esiste una guerra dei me, ma una convivenza. Pensiamo ad un palco dove cinque cantanti hanno il loro microfono e un faretto puntato su ognuno di loro. A volte ci sono duetti, a volte si esibiscono tutti in coro, altre volte uno ritaglia uno spazio ed un tempo per esibirsi da solista. La felicità e la tristezza si mischiano molto più di quanto si alternino, la rabbia può monopolizzare il palco ma poi lascia il posto alla delusione, la quale sa aspettare pazientemente il suo turno. L’euforia e la frenesia fanno degli acuti clamorosi, ma sanno anche tramutarsi in consapevolezza e abbassare il proprio timbro. Non c’è patologia in tutto questo, c’è umanità, c’è la voglia di concentrarsi sul grigio e sulle sue sfumature, lasciando l’obbligo della scelta tra il bianco ed il nero a chi non ha ancora imparato a vederne oltre.