In occasione dell’uscita del nuovo album Kombat Rap, abbiamo realizzato una nuova intervista con Kento, parlando della genesi del disco, nuovo punto di partenza nella carriera del rapper vista le differenze musicali e contenutistiche rispetto agli album precedenti.
Seguendo le sue rime come filo conduttore, abbiamo parlato dell’evoluzione che contraddistingue il progetto, nonostante le rime politiche, provocatorie e a volte anche dissacranti a cui ci ha abituato ricoprano sempre un ruolo importante traccia per traccia. Un Kento aggiornato, soprattutto nelle collaborazioni, elemento che testimonia una ventata d’aria fresca che investe le certezze dell’artista, bisognoso di trovare nuovi stimoli in un genere che vive di evoluzioni e cambiamenti repentini.
Un disco denso, vario e soprattutto hip hop. Nelle citazioni, nell’attitudine e nella delivery di un rapper sempre più sul trampolino di lancio, ancora al “primo capitolo di una nuova esplorazione”
La nostra nuova intervista a Kento, fuori con Kombat Rap
L’impressione che ci ha lasciato l’album al primo ascolto si riassume nelle necessità di evolversi. Kombat Rap rappresenta anche indirettamente la necessità di volersi togliere di dosso l’etichetta di rapper militante che più volte ti è stata affibbiata?
«Le etichette mi fanno schifo tutte. Se vengo definito “rapper militante” non mi dispiace, perché nei fatti lo sono: il problema è che la definizione si porta dietro una puzza di noia e di vecchio che non mi appartiene assolutamente. Certamente scrivo dei testi politici, ma anche delle canzoni d’amore, delle altre più leggere, delle punchline… Kombat Rap dura quindici tracce e quasi un’ora, non è che per tutto questo tempo sto sempre a inneggiare alla rivoluzione! Sinceramente penso che sia una questione di prospettiva: forse non sono io che sono così politico, forse sono molti tra gli altri rapper – pure quelli magari molto bravi a scrivere un testo di un altro genere – che quando provano ad affrontare un contenuto sociale non riescono a tirare fuori altro che banalità e frasi fatte. Dall’altro lato, il cosiddetto “rap impegnato” a volte sembra un po’ voler diventare una setta e raccontare le cose a chi le sa già, e anche in questo caso si finisce a fare slogan e frasi fatte. Io cerco di fare il mio a modo mio, e pazienza se a volte scontento sia gli uni che gli altri».
Il viaggio del disco inizia con “Pietre”: una traccia soul e intima in cui ti lasci trasportare dai pensieri. C’è un motivo preciso dietro alla scelta di iniziare l’album con questo mood?
«Era da tanto tempo che volevo scrivere un omaggio alle canzoni che più mi hanno ispirato da ragazzo fino ad adesso, e quale modo migliore se non citarne direttamente i titoli? Si tratta dell’ultima traccia che ho scritto a livello cronologico, e forse anche per questo mi è sembrato il caso di metterla per prima, in modo da rendere subito chiare le mie intenzioni a chiunque varchi la soglia dell’album. Per chi ne ha la pazienza, quello di andare a cercarsi i titolo può essere una sfida, e non a caso questo testo ha incuriosito molto i giornalisti: non c’è nessuno che non mi faccia una domanda specifica su di esso e infatti, se ci fai caso, me l’hai fatta anche tu. Mettici anche che mi piacciono molto i 64 bars e quindi ho trovato un modo, penso abbastanza originale, per inserirne uno anche dentro l’album. Una curiosità: ancora non l’ho fatta nemmeno una volta dal vivo, sono molto curioso di vedere come reagirà il pubblico».
Nel disco ti metti a nudo più volte, lasciando intendere con chiarezza la tua necessità di cambiamento. “Volevi il Kento vecchio, riascolta il vecchio disco”, rappi in “Nuovo classico”. Cosa è cambiato rispetto ai progetti precedenti?
«Negli ultimi anni, per una serie di motivi, è aumentata molto la mia visibilità e la mia esposizione, e questo ovviamente mi ha giovato molto a tanti livelli, non ultimo quello economico. Personalmente non ho niente da rimproverarmi riguardo a ciò, perché alla fine sono più di vent’anni che mi rompo il culo con il rap e tutto ciò che gli gira intorno, e cioè per me i libri, i laboratori, ultimamente anche il podcast e la tv. Oggi, che arrivo a raccogliere dei bei frutti, apprezzo molto ciò che sta succedendo ma sinceramente penso anche che in buona parte me lo sono meritato lavorando ogni giorno, anche nei periodi più oscuri e avari di riconoscimenti. Eppure più cresci e più fai ombra, e certe volte sembra che – visto che sono sempre stato una persona accessibile e alla mano – chiunque si senta in diritto di farmi la morale e di dirmi cosa devo scrivere e come devo vivere la mia vita. Al che ho deciso che una certa distanza, alla fine, la devo mettere, sia nel non farmi rompere le scatole da tizio e caio che nel non farmi incasellare nel ruolo di alfiere, purista del suono originale e della militanza. L’ambito più difficile è il rapporto con le persone che conosci da una vita e per qualsiasi ragione “non ce l’hanno fatta” e ora pensano che a te basterebbe stendere una mano e tirarli su, il che ovviamente è totalmente impossibile perché purtroppo non funziona così. Ma tanti non riescono a capirlo, e quindi tu passi da venduto e da ingrato, e diventi un nemico, uno dall’altro lato della barricata. E va bene così, pace a loro».
Nonostante i cambiamenti, gli skretch e le citazioni ai classici dell’hip hop non abbandonano mai la tua musica. Il rap è sempre il genere che più ti affascina anche nei tuoi ascolti privati?
«Il genere che ascolto di più è il reggae, penso che gli artisti con più riproduzioni sul mio profilo Spotify siano Capleton e Luciano. Poi certo, c’è tanto Hip-Hop, e poi i cantautori italiani, e poi la musica popolare del nostro Sud. Per quanto riguarda i riferimenti ai classici dell’Hip-Hop nella mia scrittura, non sono assolutamente cercati, ma fanno semplicemente parte di ciò che sono, quindi vengono fuori con naturalezza. E lo scratch sì, ci tenevo che ci fosse, così come ci tengo che ci sia sempre ai miei concerti. Quindi ho chiamato un amico nonché valente turntablist come Dj Snifta e da lì è nata la magia. A proposito, nel frattempo ho aperto Spotify per vedere gli ultimi ascolti: Kabaka Pyramid, L’Entourloop e Io Ero Il Milanese, un bellissimo podcast che parla di carcere, e di cui vi consiglio vivamente l’ascolto».
Niente cambia è una delle tracce che più ci ha colpito. Quanto ci hai lavorato? Raccontaci la genesi del pezzo, dal contesto in cui nasce il testo fino alla scelta della collaborazione particolarmente azzeccata.
«L’80% del merito e quindi dei complimenti vanno a Cassandra Raffaele, cantautrice straordinaria, e a Dan Kol che si è occupato della produzione. E’ da Cassandra che nasce l’idea del brano, me ne ha proposto una bozza sulla quale ho scritto le strofe e poi, appunto insieme a Dan, ha avuto la sfrontatezza di stravolgerla ritagliando e rimettendo insieme come una maestra di sartoria. Si tratta di una collaborazione che avevamo in mente da anni, addirittura da prima della pandemia, e sono contento di essere riuscito a concretizzarla. Da parte mia, volevo valorizzare le atmosfere oniriche con dei versi arabescati, ricchi di immagini e di rime interne, che parlassero sia col significato che col suono».
In “Colluttorio” emerge la tua visione della scena italiana. All’inizio dici che “l’underground resta la linfa che succhiate”. A cosa ti riferisci?
«Quella barra è un omaggio al potere creativo e di ispirazione che viene dal sotterraneo, dall’underground appunto, che costituisce la linfa vitale di ogni movimento artistico e non soltanto del rap. Non ci sarebbe mainstream se non ci fosse stato prima un movimento underground, da nessuna parte. Beninteso, ciò non significa che il mainstream sia inutile: dire una cosa del genere sarebbe ingenuo e forse anche un po’ miope. Da quando il rap in Italia è diventato un fenomeno di largo consumo, anche chi si muove nel sottosuolo ha innegabilmente più occasioni e meno difficoltà a farsi vedere, a farsi ascoltare. Però appunto, non scordiamo come sono andate le cose: se la nostra musica non fosse nata in strada, non sarebbe mai arrivata in cima alle classifiche».
La necessità di raccontare l’Italia nei suoi problemi e contraddizioni rimane uno degli aspetti centrali del tuo percorso, anche in Kombat Rap. Abbiamo l’impressione che il rap Italiano stia perdendo sempre più velocemente questa peculiarità. Secondo te perché?
«Questo dovresti chiederlo a chi fa dischi su dischi senza dire un cazzo, non certo a me. Da parte mia, mi piacerebbe molto che l’Hip-Hop fosse davvero un movimento e non semplicemente un elenco di nomi e artisti staccati tra loro. Ma forse quell’epoca è finita e forse in effetti non c’è mai stata davvero. Forse i più grandi di me, i pionieri, sono stati troppo duri e severi con noi giovani che ci affacciavamo e quindi, per reazione, la mia generazione (che è quella di mezzo) si è spinta all’eccesso opposto, quello del “va bene tutto” nei confronti dei più piccoli, e adesso se ne vedono le conseguenze. Siamo forse mancati come guida nei confronti degli adolescenti di oggi, non li abbiamo supportati nel modo giusto. Quindi, quando vedo dei ragazzi di 16 o 17 anni che spaccano (e ce ne sono molti), sono ancora più felice per loro, perché lo fanno solo con le loro forze».
Le scelte delle collaborazioni, varie e soprattutto diverse dai classici nomi che compongono la tracklist di un tipico disco rap, sono un esempio lampante dell’unicità di questo album. Quanto è stato impattante lavorare con molti artisti lontani dalla tua comfort zone?
«Penso che il rap oggi sia abbastanza maturo per dialogare ad armi pari con qualsiasi genere musicale, artistico e culturale in generale. Da parte mia, più una collaborazione è inaspettata e più la trovo stimolante, perché mi costringe a rivalutare le mie certezze, a spingermi in una direzione nuova. La musica più la ami e più ti dà, e a volte ti rendi conto che l’oceano dove ti sembrava di nuotare fino a ieri era solo un bicchiere d’acqua. Oggi so che mi trovo in mezzo ad orizzonti e oceani inesplorati, tutto intorno. E Kombat Rap è sicuramente il primo capitolo di questa nuova esplorazione».