Un rito sacro da Chicago.
I hate Kanye West he’s awesome. Parafrasando il titolo del suo ultimo disco, viene fuori un quadro complessivo di come il pubblico si pone nei confronti di Kanye West. C’è chi lo ama – alla follia, quasi venerandolo – e chi lo odia, attribuendogli qualsiasi difetto e sminuendone il genio artistico. Io, e lo dichiaro senza timore, mi siedo con piacere tra i primi. Anzi, mi metto proprio in prima fila, con uno di quei guantoni giganti a indicare il numero uno, sbracciandomi e sperando di essere visto dal mio idolo. Quello che, però, inevitabilmente unisce i detrattori e i fan dell’artista di Chicago è proprio l’attrattività magnetica che l’autore di The College Dropout riesce a esercitare su di loro. Se parla Kanye, tutti ascoltano. Se c’è una notizia su Kanye, tutti la tengono bene in mente.
E così, quando negli ultimi giorni di agosto Kim Kardashian – che, per le tre persone sul pianeta che non lo sapessero, è la moglie di Kanye West – ha pubblicato una storia con quella che sembrava una tracklist di un disco, un titolo e una data d’uscita che segnava 27 settembre, tutti sono più o meno impazziti. Effetto Kanye insomma. Anche noi ne abbiamo parlato cercando di capirci qualcosa in più, ma non è questo il punto. Domenica è comparso online il video integrale del Sunday Service tenuto nello stesso giorno a Chicago dal signor West. Anche definire cosa sia il Sunday Service di è difficile, come succede con ogni cosa mai fatta prima. Si tratta di una celebrazione religiosa/concerto che l’artista Chicagoano, accompagnato da un coro gospel e da musicisti, tiene ogni domenica in posti diversi da un po’ di mesi a questa parte, durante la quale suona pezzi suoi o di altri e si lascia andare a riflessioni sulla vita, sul mondo e su dio. Insomma, fa tutto quello che ci aspetteremmo da Kanye West.
Perdersi nei cori del video lascia realmente senza fiato. Siamo davanti a qualcosa che solo Kanye avrebbe potuto fare e pensare. Troppo spesso, i suoi detrattori – ma non solo – parlano di lui, spesso citandolo insieme alla moglie, come di un semplice businessman, un esibizionista uomo di spettacolo, un folle – cosa di cui lui stesso ha parlato con David Letterman – e un egocentrico. Ci si dimentica, però, che Kanye West è soprattutto un artista con la a maiuscola, visceralmente appassionato e legato prima di tutto alla musica, nonostante i milioni, nonostante la fama e tutte quelle cose che di solito vengono dipinte come nemiche di una fantomatica vera arte.
Col Sunday Service di Chicago, però, Kanye è andato oltre la semplice musica, per vari motivi. A colpire visivamente, innanzitutto, ci pensa già la configurazione dell’evento, che sembra quasi improvvisato. Non c’è un palco sopra al quale salgono gli artisti davanti al pubblico, ma si canta e si prega al centro, con la folla radunata circolarmente. Si è tutti parte della stessa cosa, della stessa comunità; si è lì tutti per lo stesso motivo e con la stessa importanza. Tutta l’adunata partecipa dell’energia del coro, anzi diventa il coro stesso e si identifica con esso e con Kanye. È una celebrazione della simpatia, secondo l’etimo greco – da sympatheia – come capacità di soffrire e provare emozioni insieme all’altro.
Altro aspetto non casuale è che un qualcosa del genere, di così unico e allo stesso tempo grande, Mr. West sia riuscito a crearlo proprio a Chicago, casa sua. La dimensione comunitaria è fortissima e assume i toni della ritualità. Il rito, inteso come atto sacro di un gruppo sociale, ha molte funzioni e spiegazioni. Quella primaria, però, consiste nel cementare la comunità, far sì che il gruppo di persone riunite intorno a un qualcosa di comune, intorno a un simbolo, si riconosca in esso, così da celebrare la propria unità. Quel simbolo, domenica scorsa, per Chicago, è stato Kanye West. Tutti al Sunday Service si sono sentiti più vicini solo grazie a lui.
Lui, appunto. Egocentrico, pazzo, non sa rappare!, supporter di Trump, presuntuoso. Gliene sono state dette di ogni, dimenticandosi che, alla fine dei conti, si stava parlando di una persona, di un essere umano. Ed è nella sua umanità che viene fuori. Durante Ultralight Beam si copre il volto con la mano. Sta piangendo, davanti a tutti, ma non vuole farlo vedere. Una cosa simile gli era già capitata al Coachella. Una corista gli poggia una mano sulla spalla, come per consolarlo, ma non credo siano lacrime di tristezza, ma di gioia, liberatorie. E, infatti, quando prende lui il microfono per la prima volta, a uscire dalla sua bocca sono le parole “I just wanna feel liberated” di Father Stretch My Hands, Pt. 1. Libero, attraverso quelle lacrime e le risate alle quali si lascia andare poco dopo con Chance The Rapper.
Il Sunday Service è difficile da catalogare come esperimento e forse non ha neanche tanto senso provarci. Una certezza ci rimane. È la consapevolezza dell’unicità di Kanye West, data dall’essere uno dei pochi artisti a vivere la musica come esperienza totalizzante, che abbraccia tutta la sua persona. È per questo che a volte vediamo venire fuori i suoi spigoli, i lati più sporchi, perché non può non mettere quello che è, il suo essere, fatto di ombre e luci come ognuno di noi.
Tra i cori più ripetuti al Sunday Service c’erano quelli di ringraziamento, ed erano intonati da una folla di giovani festanti e amanti della musica. Loro parlavano a qualcuno di – forse – più alto. Io ringrazio Kanye West.