L’underground in Egitto prima e dopo la Rivoluzione raccontato tra le pagine di Cairo Calling.
Cairo Calling, scritto da Claudia Galal ed edito per Agenzia X, affronta la delicata questione istituzionale egiziana che venne formandosi conseguentemente allo scoppio della Primavera araba. Non si tratta tuttavia di una noiosa e statica analisi politica, incentrata su quella che fu una delle più grandi rivoluzioni, sino ad oggi, del ventunesimo secolo.
Il libro, invero, non manca di testimonianze dirette da parte di giovani egiziani impegnati in prima linea a contrastare il regime dittatoriale cui erano tradizionalmente succubi. Storie di ragazzi comuni, pronti a morire per la conquista di libertà e di diritti fondamentali. Audaci combattenti volenterosi di scardinare le austere istituzioni politiche e gli imperanti dogmi culturali abituali.
Una rivoluzione condotta dal popolo egiziano, straordinariamente amalgamato, benché formato da gruppi di persone eterogenee dal punto di vista religioso, culturale, sociale e sportivo. Musulmani, cristiani e tifoserie antagoniste impegnate in una causa comune.
Aprendo una piccola parentesi, ho trovato molto interessante il fatto che il mondo ultras abbia contribuito al processo di sovversione del regime egiziano: sostenitori dello Zamalek e dell’Alhy, queste le due squadre rivali del Cairo, che impartivano lezioni ai manifestanti su come resistere ai lacrimogeni lanciati dalle forze di polizia durante gli scontri di piazza Tahrir. Sono sempre stato attratto dalle curve calcistiche – intese come fenomeno antropologico e sociale – poiché basate su principi di appartenenza al gruppo e di fides sportiva, che sottintendevano un preciso codice di comportamento ed un radicato senso di vicinanza alla dimensione cittadina.
In un contesto di evidente crisi istituzionale era inevitabile che le culture underground non “rimanessero a guardare”, sfruttando l’impeto della rivoluzione come valvola di massima espressione artistica.
Cairo Calling è l’esempio più lampante di come il writing possa innescare nelle persone un processo di consapevolezza immediata della realtà dei fatti. Il graffito rimane, secondo il sottoscritto, l’elemento più diretto ed efficace tra le quattro discipline Hip-Hop.
La street art, come il rap, rivela tutta la propria capacità di collisione e di forte critica sociale, rivelandosi abile a condurre una narrazione politica alternativa ed anti-sistemica. Nel fare ciò sfrutta lo spazio urbano, luogo della quotidianità, che diventa così terreno di confronto politico.
I graffiti e gli stencil non sono semplici media tramite i quali sintetizzare un’evidente situazione di disagio causato dal contesto socio-politico, bensì essi acquistano valore anche in una dimensione di memoria collettiva. I volti dei giovani martiri raffigurati sui muri di Downtown, situati strategicamente nel cuore della città, rievocano infatti – agli occhi dello spettatore – trascorse vicende di mortali opposizioni alla dittatura di Mubarak. Al contempo, inoltre, essi fungono da ammonimento per il suddetto spettatore: questi non deve guardare con indifferenza e superficialità le incisioni realizzate, al contrario deve riflettere approfonditamente su di esse. L’opera muraria ha come obiettivo quello di evitare che il passato venga ignorato. L’oblio costituirebbe una grave mancanza, ed un’atroce irriconoscenza, verso le tante vittime della rivoluzione. È come se quei volti stessero metaforicamente a significare che è necessario guardare lo ieri per per poter costruire un domani migliore.
La forza eversiva della street art è stata ben compresa dal governo egiziano, il quale ha in tutti i modi tentato di contrastare gli esponenti del suddetto movimento culturale. Non deve allora sorprendere che siano stati demoliti i muri raffiguranti scritte di opposizione verso il regime o che gli stessi siano stati ripitturati.
La street art compie un’evidente opera di sensibilizzazione della popolazione, che azzarderei a definire di matrice didascalica. Interessante, in questo contesto, analizzare la figura del writer, il quale viene inteso come vate o profeta, ovvero come soggetto portatore di verità agli occhi del popolo. Sarebbe molto affascinante, un domani, compiere un parallelismo tra il ruolo assunto dai writer e la concezione di intellettuale organico espressa all’interno del pensiero gramsciano.
«Penso che il ruolo del writer sia coinvolgere le persone e spingerle a porsi delle domande, magari per vedere le cose da punti di vista differenti. Da un lato, i graffiti sbucano dove non te lo aspetti e, attraverso il loro forte impatto visivo e il simbolismo chiaro e semplice, ti colgono di sorpresa e ti rendono più vulnerabile al potere delle immagini. Dall’altro lato, permettono di creare un senso di appartenenza e di proprietà pubblica della città»
Degna di nota anche la riflessione compiuta dalla Galal sui diversi scopi, ed utilizzi, della street art nelle varie parti del globo: volta a contrastare il sistema capitalista ed i grossi colossi finanziari in Occidente, diversamente da quanto invece accade in Asia o in Medio Oriente ove viene principalmente impiegata per combattere regimi politici che limitano la libertà degli individui.
Lo snodo focale del discorso è che la scena artistica indipendente – grazie alla Primavera araba – è finalmente potuta uscire dalle gallerie, ove era relegata a fenomeno di nicchia, per riversarsi sulle strade andando a ricoprire un ruolo che la dimensione precedente, fin troppo elitaria, non poteva consentirle di svolgere. L’arte contemporanea può dunque essere definita “hic et nunc”: è fotografia istantanea del presente ed al contempo storiografia documentale della rivoluzione.
Cairo Calling non è però un saggio interamente incentrato sulla street art, esso abbraccia l’intera dimensione artistica underground egiziana. Vi sono interi capitoli concernenti domande rivolte a gruppi musicali locali o ad esponenti artistici di spicco all’interno della scena nazionale. Caso esemplare è quello dei Mona Lisa Brigades, che intendono la rivoluzione innanzitutto come status mentale. Claudia Galal presenta un ventaglio di molteplici concezioni sul significato, e sulla funzione, dell’arte: interessante notare che molti dei soggetti intervistati convergano sul fatto che essa non debba necessariamente esprimere un messaggio politico, come ben espresso in un capitolo da The Mozza.
La rivoluzione del duemila e undici aveva illuso buona parte della popolazione di poter finalmente avviare una fase di transizione mai prima verificatasi nella storia dell’Egitto. Ad oggi non so quanto il paese sia realmente cambiato, la percezione che ci sia stato come un naturale ritorno allo status quo è – a dir la verità – piuttosto evidente. Ed è ciò che afferma, con un poco di amarezza e rassegnazione, anche la stessa autrice.
Questi descrive uno Stato ancora fortemente vincolato alle proprie contraddizioni politiche e culturali. Un Paese in cui purtroppo le donne, vere protagoniste della Rivoluzione, non hanno acquisito quei diritti -e quelle libertà- che per natura spetterebbero loro. Una difficile situazione politica che ha portato all’instaurazione di un repressivo stato di polizia. Un clima di terrore e di sovversione verso tutto ciò che potrebbe potenzialmente essere utilizzato contro il nuovo ordine istituzionale.
Il presidente della Repubblica Al Sisi dichiara di voler combattere il fondamentalismo islamico ma al contempo conduce vere e proprie crociate nei confronti della street art, la quale resta uno dei pochi strumenti disponibili alla popolazione per poter avviare un processo di (ri)costruzione della propria identità culturale. In questo senso l’Egitto mi sembra un grande gatto che si morde la coda. Solamente comprendendo il ruolo informativo svolto dai graffiti e, più in generale dalla realtà artistica indipendente, il Paese islamico potrà sperare in un futuro migliore.
«La cultura è il vero motore del cambiamento, in qualunque parte del mondo. il governo può inventare nuove regole, imporre la censura, limitare la nostra libertà di espressione con stupide leggi, ma non potrà mai fermare l’arte. la musica è un potente catalizzatore di giovani, è capace di riunire un grande esercito indipendente che usa la voce e gli strumenti come armi»
L’arte racchiude in sé una forza distruttiva che è sicuramente più potente di quella di qualsiasi strumento bellico di ultima tecnologia.
Grazie ad esperienze come quelle raccontate in Cairo Calling potremo, un domani, combattere il Sistema utilizzando strumenti di lotta politica non convenzionali ma sicuramente efficaci.