Chiedersi se, nell’industria musicale contemporanea, il talento vinca ancora significa porsi una domanda da un milione di dollari. Tutt’altro che scontata è la risposta che potremmo darci e, come vedremo alla fine di questo articolo, tutt’altro che semplice.
Le righe che seguono vogliono – in qualche modo – riprendere e approfondire un mio vecchio articolo (QUI per recuperarlo). Le mie conclusioni non vogliono essere la risposta al problema posto in apertura, ma uno spunto di riflessione per poter guardare con maggiore consapevolezza al futuro che ci attende. Il riferimento esclusivo sarà la scena americana.
Internet ha cambiato il modo in cui consumiamo la musica e, di conseguenza, anche i parametri per il successo.
Da dove partire quindi? Sicuramente, da una premessa banale, ma fondamentale allo stesso tempo: l’avvento di internet ha radicalmente cambiato il modo in cui consumiamo la musica. Un tempo, infatti, acquistare un album significava spendere non solo del denaro, ma anche del tempo per recarsi al negozio di dischi e cercare tra le rastrelliere colme di cassette, vinili e compact disc.
Ricorderò sempre la sorpresa nell’incappare in Grey Area di Little Simz in uno dei negozi della zona in cui abito. È sempre difficile, infatti, trovare negli espositori dedicati alla musica internazionale CD di artisti che non siano Drake, Kendrick o simili. Mai avrei pensato di trovare questo progetto senza dover comprarlo su internet o sul sito della rapper.
Acquistare uno di quei prodotti era quindi un’esperienza a sé stante, che si aggiungeva a quella vissuta attraverso la musica. In sostanza, ad avviso di chi scrive, il tempo e il denaro spesi aiutavano ad attribuire alla musica un maggior valore.
Poi è arrivato internet. Con esso sono arrivati anzitutto i leak, poi i negozi digitali ed, infine, lo streaming. Il web ha permesso alla musica di divenire molto più accessibile con tutti i lati positivi e negativi del caso: chiunque può, infatti, riprodurre qualunque cosa in qualunque momento, ma – al contempo – le derive di ciò si stanno manifestando sempre più negli ultimi tempi.
Il ruolo dello streaming.
Il modo in cui consumiamo la musica può incidere sulla sua qualità? Partiamo dallo streaming e, in particolare, dal modo in cui gli stream influiscono sulle certificazioni.
Fino al 2013-2014 il disco d’oro, di platino o di diamante andava ai singoli e agli album che riuscivano a piazzare 500.000, 1 milione o 10 milioni di copie esclusivamente fisiche o digitali (acquistate quindi su iTunes o in altri negozi digitali). A partire dal 2014, gli stream hanno affiancato tali copie, arrivando a divenire la voce principale quando si tratta di certificazioni.
E qui arrivano i problemi. Dando un’occhiata al sito della RIAA, troverete le regole alla base dell’assegnazione di tali riconoscimenti. Se un brano viene riprodotto 150 volte, queste riproduzioni saranno considerate come 1 copia dell’intero album. Ripeto: se una singola traccia viene riprodotta 150 volte, è come se l’artista avesse venduto 1 cd o 1 una cassetta o 1 vinile.
A me pare che ci sia una grande differenza tra l’ascoltare una traccia 150 volte e comprare un album. La conseguenza di ciò è che, in valore assoluto, tutte le canzoni di un progetto divengono perfettamente uguali tra loro.
Album di successo o singoli di successo?
Adottiamo quindi cautela quando sentiamo proclami del tipo “l’album di Tizia/o si conferma un successo: tre miliardi di riproduzioni su Spotify“. Nella maggior parte dei casi l’artista avrà avuto la fortuna (seppur frutto di un lungo lavoro corale) di pubblicare una canzone di successo – riprodotta due miliardi di volte ad esempio – mentre le altre (e innumerevoli) tracce del disco si suddivideranno il rimanente miliardo.
Alcuni esempi. Views di Drake risulta riprodotto su Spotify ben 6 miliardi e 700 milioni di volte: di questi, più di 2 miliardi sono da attribuire a One Dance, quasi 1 miliardo a Hotline Bling, mentre i rimanenti 3 miliardi e 700 milioni circa sono ripartiti tra le restanti diciotto tracce del progetto.
Ancora, Excuse Me For Being Antisocial di Roddy Ricch: 2 miliardi e 500 milioni di riproduzioni. 1 miliardo e 200 milioni di stream vanno a The Box, mentre gli altri alle rimanenti quindici tracce dell’album. Album di successo o un singolo di successo? Penso che la differenza non si possa ignorare.
Tutto ciò ha almeno tre conseguenze rilevanti. In primis, è cambiato quello che le etichette cercano: il talento viene, infatti, sempre più sacrificato in favore dell’appeal commerciale, della presenza social e della capacità di creare contenuti virali. Non aggiungerò altro se non questa domanda: c’è ancora spazio per l’Arte nell’industria musicale contemporanea?
In secondo luogo, cambia il modo in cui si promuove la musica. Di recente, il modo di gestire le ere discografiche è cambiato drasticamente. Un tempo, un’era discografica poteva durare due-tre anni: il lead single era seguito a stretto giro dal progetto vero e proprio e, dopo l’uscita di questo, l’artista continuava a promuoverlo con tour, apparizioni televisive e radiofoniche e video.
Attualmente, questa gestione è diventata frettolosa e un’era discografica dura – se va bene – un anno. Innumerevoli singoli estratti prima del lancio del disco – questo perché le etichette sono alla disperata ricerca della hit che possa trainare le vendite del progetto, considerato vecchio a pochi mesi dall’arrivo nei negozi.
Ecco quindi che gli album stanno smettendo sempre più i panni di progetti corposi e unitari per ridursi a semplici collezioni composte dagli innumerevoli inediti lanciati prima del disco. Solo musica o anche Arte? Quando è stata l’ultima volta in cui avete ascoltato un progetto musicale degno di questo nome e non una semplice sequenza di canzoni?
Per non parlare poi del fatto che le tracce siano sempre più brevi aggirandosi oramai attorno ai 2 minuti di media: questo per renderle più appetibili per i social – TikTok in primis. Questo fatto testimonia un trend negativo da correggere al più presto: a dominare deve essere la logica di mercato oppure la libertà artistica?
Dove sta andando l’industria musicale? C’è ancora spazio per il vero talento?
Alla luce di quanto sottolineato, ritengo che non si possa dare al problema iniziale una risposta univoca. Tuttavia, penso che la percezione di talento così come quella di successo stiano cambiando. Inoltre, porsi questi interrogativi ci può aiutare a capire quale sia il futuro dell’industria musicale contemporanea.
Questo non significa che, nel 2021, non ci sia più spazio per il talento. Vi basti pensare a Chika, che con Once Upon A Time ha dato l’ennesima prova di un’incredibile visione artistica. Oppure ai Planet Giza, un emergente trio canadese il cui eclettismo musicale li rende uno dei nomi più interessanti del panorama contemporaneo.
Purtroppo, le logiche esposte sopra stanno rendendo sempre più difficile per questi nomi emergere: questo perché, per loro, al centro rimane sempre la passione per la musica e non l’interesse per numeri, vendite e certificazioni.
Si rende quindi necessaria una rivoluzione che inverta o attenui le tendenze messe in luce nelle righe precedenti. Non penso che questo cambiamento possa venire dal pubblico né dalle etichette – per motivi molto intuitivi: il primo consuma quel che gli viene dato – anche se ha un ruolo più attivo di quel che può sembrare, mentre le seconde – fatte poche eccezioni – saranno sempre alla ricerca del profitto.
Dovrebbero quindi essere gli artisti stessi a farsi portavoce di una rivoluzione sempre più necessaria per far sì che il talento torni a vincere come un tempo. Questo non in nome di un passato ideale, ma perché è così che dovrebbe funzionare: a mio avviso, infatti, nel panorama contemporaneo, mancano un po’ di spontaneità e di autenticità.
Solamente una realtà libera dai lacci dei meccanismi commerciali può dare spazio al vero talento.
Grafica di Stefano Baldi.