Abbiamo avuto il piacere di parlare con Godblesscomputers del suo ultimo album The Island e di alcuni dei suoi nuovi progetti.
Credo che di tanto in tanto bisognerebbe fare un passo indietro e tornare a riconoscere le versioni più primitive del suono, ovvero quelle naturali. Anche solo per ricordarci di quanto è straordinario poter possedere questa sconfinata variabilità di sonorità nella vita di tutti i giorni sui nostri Spotify, Apple Music e così via. Questo e molti altri, sono i motivi per cui ho voluto fortemente questa chiacchierata con Lorenzo, in arte Godblesscomputers, ma anche Koralle Beats per gli amanti delle atmosfere hip hop come noi.
Si intitola The Island il nuovo album di Godblesscomputers disponibile dallo scorso dicembre su tutte le principali piattaforme streaming per La Tempesta International e distribuito worldwide da AWAL. Sancisce così il suo ingresso discografico nella scena elettronica internazionale, avendo anche precedentemente pubblicato i tre singoli Fire In The Jungle, Lions e Float.
Se Solchi (2017, La Tempesta) era un viaggio a ritroso alla ricerca di un fil rouge nel suo percorso passato e futuro, con The Island Godblesscomputers si lancia in un nuovo viaggio immaginario verso una terra lontana. Le otto tracce ci conducono in un’isola misteriosa, raccontata in altrettanti capitoli che portano l’ascoltatore a seguire il corso della storia.
Godblesscomputers sceglie di limitarsi a titoli evocativi e sintetici, lasciando che siano solo i suoni a parlare: svariati personaggi e paesaggi animano questo ultimo lavoro che appare semplice e conciso proprio come un’isola, eppure man mano mostra infiniti ripiegamenti, avvolgendo l’ascoltatore tra mille sfumature fatte di rimandi, influenze e intuizioni.
Questo è quanto ci siamo detti, fatene buon uso:
Ascoltando il disco si percepisce l’intenzione di accompagnare l’ascoltatore nella scoperta di The Island. Potremmo definirti come una vera e propria guida all’esplorazione dell’isola creata dalla tua mente?
«Mi fa molto piacere quello che dici. Nel senso che adoravo proprio l’idea di provare ad immaginare me stesso come una sorta di guida di quest’isola. È chiaro che il tutto è assolutamente filtrato dalla mia sensibilità. Quindi, in maniera particolare, dai suoni che ho scelto per The Island. Questa, però, è una prerogativa che ho sempre cercato di portare avanti. Raccontare, per quanto possibile, delle storie e provare a portare l’ascoltatore nei miei mondi. Tutto ciò è stato realizzato anche con l’utilizzo di registrazioni ambientali. Giravo con il mio registratore in certi paesaggi e certe zone a me care e registravo i suoni che poi trovi facilmente nelle mie produzioni. Sai, anche per connotarle e dargli uno spazio finito».
Ci parleresti, invece, un po’ del disco in generale?
«The Island è un concept album abbastanza breve di otto tracce. Rispetto al precedente che ne aveva il doppio. Più breve, ma non per questo meno intenso. Esplora un’isola immaginaria che ho provato a descrivere con i miei suoni. Inizialmente doveva essere un progetto un po’ più ambizioso. Avrei voluto abbinare i suoni di questo disco ad una specie di cortometraggio o film. Ambientato su un’isola, ovviamente. Tuttavia, l’idea di essere troppo didascalico magari non era proprio adeguata. Anche perché, come hai detto tu, magari il mio obiettivo è sempre poi quello di far arrivare le persone sull’isola con la loro testa e di farle immergere in queste dimensioni attraverso i suoni. The Island, secondo me, può essere anche un viaggio che ha un inizio ed una fine».
Rispetto agli altri dischi mi sembra quello meno “sofferto”. Pensi che paradossalmente la quarantena abbia influenzato il tuo processo di creazione in maniera positiva?
«È sicuramente un disco meno sofferto. Nel senso che i sentimenti che provavo quando ho scritto questo disco erano diversi rispetto a quando ho composto Plush and Safe che, secondo me, è più triste. Questo in particolare in realtà l’ho scritto prima del lockdown di marzo. Anche se poi è uscito a fine 2020. Le canzoni, quindi, sono figlie del momento poco prima. In cui mi ero preso una pausa dai live, cosa che ora non si può fare ma si spera a di farlo presto! È frutto, secondo me, di un viaggio più interiore.
Mentre, quella per le isole, è un’attrazione che ho sempre avuto, fin da quando sono piccolo. Credo che siano molto affascinanti. Specie in quella parte del mondo dove ce ne sono parecchie: come l’Oceania, il sud del Pacifico ecc… Un po’ perché è dell’altra parte del mondo, un po’ perché lì è tutto così diverso rispetto a quello che vediamo noi qui. Non ti nascondo che avrei voluto viaggiare per vederle proprio in questo periodo».
La cover mi sembra un trip parecchio interessante.
«La copertina, secondo me, è molto concettuale. Gioca sulla prospettiva. Nel senso che c’è questo scatto fotografico messo al contrario, dove puoi cogliere l’immagine originale soltanto girando la copertina a 180 gradi. Ovviamente col vinile, perché col pc mi sembra abbastanza difficile (ride, ndr). Tu vedi degli uccelli in cielo che volano, ma in realtà sono stravolti e si specchiano sull’acqua. Quello che sembra cielo, in realtà è acqua e poi c’è la terra ferma. Puoi guardarla in entrambi i versi. L’idea era quella di rappresentare la prospettiva con cui guardiamo le cose.
Anche l’isola è totalmente raccontata dalla mia prospettiva, ovvero quella di un uomo che ci vive su quest’isola e che prova ad immaginare il mondo da fuori, in maniera isolata. Ho quindi scelto di non essere didascalico e rappresentare direttamente l’isola. Provando a dare un senso maggiore al tutto con questa fotografia scattata in India. Uno dei miei più cari amici ci era stato tempo fa e mi stava facendo vedere delle foto scattate da lui di alcuni paesaggi. Fino a quando, dopo aver visto questa, gli chiedo di provare a montarla al contrario. Ho avuto questa intuizione, l’abbiamo girata al volo e abbiamo detto subito: incredibile, funziona!»
Chi ascolta un tuo disco è totalmente in balìa delle tue direttive musicali, dei tuoi percorsi artistici e segue il percorso che tu stesso hai voluto tracciare per primo. Ci faresti anche un solo piccolo riassunto di ciò che possiamo definire come il tuo processo creativo? A tal proposito, cammini ancora nei boschi con il registratore?
«Negli anni ho raccolto un archivio di suoni veramente esteso. Forse, adesso, lo faccio veramente di meno rispetto ad una volta. Proprio perché ne ho archiviati tantissimi tra rumori naturali e urbani di varie città. Interni ed esterni. Li creo io stesso, a volte. Anche se adesso ci sono a disposizione infinite batterie di suoni infinite già registrati su internet di questa tipologia, a me è sempre piaciuto crearne di miei.
Cerco di dare anche uno spazio fisico reale al singolo suono, in quanto mi ricordo di averlo vissuto. Magari alle persone questa cosa non è detto che arrivi necessariamente. Per me, invece, rimane una cosa importante. Dare un’impressione personale a ciò che magari può essere l’impostazione diversa del brano percepita dal pubblico. Si crea un rapporto di fondo privato tra me e le mie canzoni, a cui io tengo tanto. Nella musica c’è sempre il prospetto estetico, ma c’è anche un aspetto individuale».
Che rapporto hai con l’aspetto digitale del suono? Sei d’accordo con questa progressione o preferisci l’aspetto più classico delle produzioni in studio con campionatore, vinili e strumenti dal vivo?
«Ti dico subito che io collaboro spesso con musicisti. Nel disco tante parti sono suonate ad esempio. Godblesscomputers potrebbe fuorviare, ma in realtà viene solo da un richiamo al pc. Non vuole essere obbligatoriamente una celebrazione al mondo digitale. Anzi, io sono molto legato all’analogico inteso come strumenti e, specialmente, vinili. La mia musica è piena di entrambe le impostazioni. Non do mai un giudizio netto su ognuna. Se fai musica con i sample o con i campionatori o col pc a me poco importa. Mi interessa il risultato finale. So benissimo che questa diatriba nell’hip hop c’è sempre stata. Magari non adesso non come prima, ma inizialmente c’era tutta quella questione legata al sample e ai campionamenti dei vinili originali. Tra l’altro oggi è cambiato il suono dell’hip hop e il modo di produrre. E personalmente non mi sono mai schierato in queste diatribe anche ai tempi.
Sarebbe riduttivo ridurre tutto al confronto tra analogico e digitale. Mi colloco volentieri a metà. In studio sono pieno di vinili e di strumenti, ma se ho bisogno di utilizzare un plugin o qualcos’altro lo uso. Poi dipende anche dall’obiettivo che ti poni. Attualmente ci sono dei generi musicali che si prestano all’utilizzo del digitale come la trap, dove trovi su setting davvero ampio di possibilità. Mentre, magari, la mia musica ha una serie di suoni caldi e organici, che hanno un certo groove, e che quindi necessitano di un altro tipo di lavoro. La scelta tra le due opzioni è molto in funzione a seconda di quello che si vuole ottenere».
Quando scegli di essere Koralle, è perché possiedi comunque una sorta di devozione nei confronti dell’hip hop? Oppure dietro c’è un vero e proprio, anche ambizioso se vogliamo, progetto musicale?
«È un progetto che è nato per tornare ad una dimensione simile a quella da cui ero partito. Ho iniziato le mie esperienze con la musica suonando il pianoforte. Ma la mia prima vera passione è stata proprio l’hip hop. Facevo i beat in cameretta con il mio campionatore e i miei dischi. Ho quindi voluto omaggiare questa mia dimensione col progetto Koralle che si basa molto di più sul beatmaking rispetto a Godblesscomputers. Una roba sul classico con un’impronta tutta mia. Dischi jazz, campionamenti, omaggi all’hip hop strumentale, ma non solo.
All’inizio in realtà l’avevo preso un po’ per gioco, ma comunque adesso ho appena pubblicato il secondo disco strumentale con alcune collaborazioni di MCs americani e inglesi. Ci sono anche i Funk Shui Project. Poi sto collaborando e producendo per un paio di artisti americani. Diverse robe. In questo lockdown mi sono chiuso in studio per fare un sacco di cose nuove di Koralle. Progetto che continua e che, quindi, sta girando molto meglio delle mie aspettative. Lo considero molto vicino alla scena inglese. Un mix tra nu-soul, hip-hop ed elettronica. Anche perché in Italia questi suoni non ha preso molto piede. Ci sono sicuramente degli artisti molto bravi, ma non esiste proprio una scena, a livello di quei suoni, riconoscibile del nostro paese nel mondo».
Attualmente con quale rapper italiano ti piacerebbe collaborare?
«Un rapper che mi piace moltissimo in Italia sia per come si rapporta al beat, sia per il suo metodo di scrittura è sicuramente Johnny Marsiglia. Mi piace un sacco e ci conosciamo anche molto bene. Con lui sicuramente mi piacerebbe collaborare come Koralle, perché scrive bene anche su roba un po’ più lenta come la mia. Penso a Marracash che è veramente bravissimo, ma anche a tutti quelli con cui già ho lavorato come Fabri Fibra, Willie Peyote, Mecna, Davide Shorty.
Secondo me, poi, le collaborazioni necessitano anche molto del rapporto umano. Adoro l’idea di passare un po’ di tempo insieme in studio. Facilita il processo creativo. Quando invece tratti con artisti stranieri seppur collaborando a distanza nelle fasi iniziali per forza di cose, mi piacerebbe comunque poi incontrarci per lavorare e avere contatto. Anche solo per guadagnarsi un bel viaggio. È proprio il momento più bello del nostro lavoro. Mi manca tanto questo aspetto».
Nel nostro paese ormai godi di una certa posizione all’interno della categoria di artisti appartenenti all’elettronica. Ma inevitabilmente quando si prova a classificare i tuoi progetti spesso bisogna far riferimento ad ambiti più internazionali. Secondo te, quando il nostro paese potrà contare su una scena solida e riconoscibile in questo senso?
«Di artisti validi in Italia ce ne sono tanti secondo me. Alcuni di loro hanno anche avuto dei riconoscimenti nel mondo. Ma è chiaro che attualmente, qui nel nostro paese, parlare di scena sarebbe un po’ pretenzioso. Esistono entità singole e non molte. Se la guardi da fuori non percepisci una scena elettronica italiana. Manca anche un vero e proprio bacino d’utenza consistente e fidelizzato. Per dare modo poi anche ai locali di organizzare festival e robe varie. Almeno da noi, non è mai esplosa questa situazione. Ci sono artisti molto bravi che però hanno preso, ognuno, la propria strada. Penso ai vari Clap! Clap!, Populous o Yakamoto Kotzuga che è anche un mio amico.
Inizialmente, secondo me, anche chi informava su questa scena non era propriamente preparato in questo senso. Magari venivamo accomunati per questione di suono ai bedroom producer in maniera più generale. L’Italia è il paese del bel canto. Abbiamo delle radici culturali che hanno prodotto una certa attenzione su chi canta. Personalmente so di appartenere ad un pubblico di nicchia. Ma non giudico assolutamente questa cosa. Perché so bene che un ragazzo vorrebbe urlare a squarciagola durante un normalissimo concerto. Mentre se vieni ad un mio live, bisogna provare ad immaginare un proprio viaggio introspettivo. Quindi, appartengo ad una dimensione che richiede un po’ più di impegno da parte dell’ascoltatore».
Abbiamo saputo che sarai coordinatore di un progetto interessante proposto dal comune di Bologna assieme a Bassi Maestro (North of Loreto). Ce ne parleresti? Che rapporti hai con Davide?
«Davide l’ho conosciuto di persona, c’è stima reciproca e abbiamo anche suonato insieme l’inverno scorso a Roma. Lui come North of Loreto e io come Godblesscomputers. È nata questa possibilità del Robot Festival di Bologna, città in cui vivo attualmente. Mi hanno contattato per una residenza artistica di uno di questi bandi promossi dal comune di Bologna, e devo dire che, in questi mesi, per supportare il mondo dell’arte della musica, hanno effettivamente messo sul piatto un sacco di iniziative interessanti. Uno di questi era appunto questo bando a cui ho voluto partecipare in compagnia di un artista con il quale avrei sempre voluto collaborare.
Quindi, ho fatto il nome di Bassi Maestro e ci siamo poi sentiti per iscriverci. Poi a prescindere dal fatto che vincessimo o meno, ho comunque proposto di fare qualcosa assieme in onore della stima che abbiamo l’uno dell’altro. Poi però abbiamo vinto per davvero, e adesso nei prossimi mesi, COVID-19 permettendo, ci metteremo in studio per buttare giù qualche idea. Più che lavorare ad una fase preliminare, mandandoci tante idee a distanza, abbiamo deciso di comune accordo che quando sarà il momento, inizieremo a sviluppare il progetto direttamente in studio assieme. L’idea è quella di costruire un live, proprio al Robot Festival. Se uscissero fuori cose interessanti, di sicuro, penserei a produrre una release o ad una limited edition in vinile, perché no. Per me sarebbe una figata!»
Grafica di Mr. Peppe Occhipinti.