17 è uscito e ha fatto discutere, specialmente in positivo, sia pubblico che critica: analizziamolo insieme.
Ogni volta che esce un joint album si crea molto hype, che spesso viene ripagato e 17 è stato sicuramente un progetto che ha riacceso la fiamma per molti ragazzi cresciuti con un certo tipo di rap. La prova di Emis e Jake era dura, vista la varietà del mercato odierno e premesso che non hanno fatto un disco da radio.
Hanno fatto un disco effettivamente rap, ma sono riusciti a farlo bene? Vediamolo insieme.
La tracklist
L’album parte con una intro – Broken Language – che è probabilmente per molti già sul podio delle migliori tracce dell’anno. L’idea di alternarsi così frequentemente sulla base è un toccasana per il rap rivolto al grande pubblico ed è riuscita alla perfezione tanto che a un certo punto non si riesce a distinguere chi dei due rappa, diventando letteralmente una cosa sola, fondendosi in una manata di rap di altissimo livello. Poi scorre il resto dell’album che tra alti e bassi (per fortuna pochi) regala all’ascoltatore svariati momenti positivi.
Tra le più riuscite troviamo senza dubbio la già citata Broken Language e No Insta che funge da premessa per l’intero disco, un po’ come se i due protagonisti siano consapevoli del loro status. Proseguendo su questa strada Renè e Francis si colloca agilmente tra le migliori con uno storytelling veramente ispirato e reale, centrato sulle storie vere di Vallanzasca e Turatello con gran poesia e spessore. Lontano Da Me, invece, si caratterizza per il fatto di risultare una sorta di autocritica: i due rapper lo fanno come se parlassero alla loro fidanzata, aggiungendo una parte sentimentale alla traccia. L’ultima Volta è uno dei brani più introspettivi del progetto, parla di strada, di carcere, di amici. Lo fa molto bene, con una malinconia che avvolge ogni barra e con la collaborazione di Massimo Pericolo che calza a pennello nell’argomento, riuscendoci ma – se vogliamo trovare il pelo nell’uovo – tirando fuori dal cilindro una strofa con forse troppe frasi fatte. Il Seme Del Male è una perla che unisce alla perfezione tutto ciò che serve, un testo forte, musicalità e un’attitudine invidiabile. Cowboy, che vede la partecipazione di Tedua, è un altro pezzo molto sentito e che riesce a trasmettere svariate sensazioni all’ascoltatore. Infine, menzioniamo anche Quello Che Non Ho, una perfetta conclusione per un disco così corposo.
Precisiamo però una cosa: questo non significa che le canzoni non citate non siano riuscite, piuttosto che non raggiungono il livello delle suddette e presentano, magari, qualche scivolone.
Prendiamo per esempio Sparami – che è una delle preannunciate hit del disco – nessuno dice non sia bella, Emis e Jake fanno due strofe di tutto rispetto (scatenando anche qualche critica perbenista, vedi Margherita Vicario) però Salmo si abbassa a barre molto discutibili dal punto di vista tecnico, come ad esempio “Sono ingrassato, zio vado a rilento, Se prima mi portava il vento, Ora ho una pancia che pare sia cacato dentro”, oppure “Le tipe nei locali mi si aggrappano alla giacca, Infatti poi mi sono iscritto a judo” (?), o ancora “Torno a casa duro, nudo, Sembro un Morgan tutto fatto che non trova il Bugo”. Dai, sinceramente, un artista del suo calibro non può continuare a comporre strofe basate su questi argomenti, frasi fatte o meme del momento (e non è la prima volta…). Fibra invece fa un buon ritornello, il punto è che il problema è proprio questo: perchè relegarlo solo a un ritornello? Della serie: “avete fatto trenta, potevate fare trentuno”. Nonostante ciò ribadiamo la sua indubbia qualità nel complesso.
Completando il discorso ci sono altre tracce meritevoli ma non perfette: Maleducato, Amici Miei e Toro Loco pur essendo molto d’impatto alla lunga potrebbero stufare per non aver portato nulla di nuovo, sembra che servano a soddisfare la voglia di qualche “zarrata” da parte degli ascoltatori. E ci riescono, sia chiaro.
Medaglia, al contrario, pur avendo un buon tema non convince per la sua musicalità un po’ troppo distante dal resto del disco. Quelle meno riuscite sono forse proprio il singolo Malandrino e 666 che non aggiungono veramente nulla al disco e sembrano funzionare solo come riempitivi.
Infine, c’è un discorso da fare riguardo i momenti solisti. Innanzitutto, è apprezzabile la scelta di posizionare due spazi personali in un joint album: i brani risultano infatti più introspettive rispetto a quasi tutto il resto del disco. Da promuovere entrambe, Amore Tossico è una canzone che sicuramente richiede coraggio da scrivere e pubblicare, La Mia Prigione rivela un lato poco conosciuto di Emis Killa invece che viene a galla piuttosto bene.
17 scorre quindi bene durante l’ascolto, è musicalmente abbastanza vario pur rimanendo radicato in un mood ben preciso. Non c’è molto spazio alla sperimentazione – ma diciamocelo chiaramente – chi se ne frega. L’eccessiva sperimentazione che stiamo vedendo in questi ultimi anni è dovuta principalmente dal fatto che si è abbassato, in media, il livello lirico degli artisti che quindi spingono il pedale su altri aspetti, come appunto la musicalità. Emis e Jake non hanno bisogno di prendere certe direzioni e dunque ecco che fanno dei testi il punto di forza del progetto. Non per questo le produzioni non sono di livello, tutte si incastrano bene nella tracklist e nessuna stona in particolare. Bisogna dire che però, tolta qualche produzione veramente ispirata come quella di Broken Language, la maggior parte si traducono in buone basi senza però gridare al capolavoro musicale.
Anche la scelta di featuring, come già accennato, è stata in gran parte azzeccata. Lazza riesce a fare un ritornello clamoroso in No Insta e una buonissima strofa in Gli Amici Miei, dimostrando – come se ce ne fosse ancora bisogno – quanto si sia fatto spazio nella scena odierna. Di Salmo e Fibra abbiamo già parlato ampiamente prima affrontando il discorso sulla traccia Sparami, così come per Massimo Pericolo. Tedua invece viene rilegato al ritornello, questa volta però la scelta è giusta siccome per Cowboy ci calza perfettamente la sua voce, provare per credere.
Per una lettura alternative delle critiche
Che nel 2020 si stiano raggiungendo livelli elevati di perbenismo e politicamente corretto penso sia sotto gli occhi di tutti. Ricordo che Guè Pequeno scatenò critiche riguardo la sua foto su Rolling Stone che lo raffigurava in una statua dorata come “dittatore del rap”. Ovviamente fu sommerso dalla classica ondata buonista che lo additò come cafone, razzista, suprematista etc. Ora invece siamo tornati con una storia simile.
17 è stato catalogato da qualche persona come offensivo nei confronti delle donne, complice qualche verso del tipo “Il mood è schivare le vipere, Mettere il cazzo in queste fighe infime, Finché non muoio di aids o sifilide”, oppure “Darei due colpi alla tua tipa ma appena apre bocca, Le darei due colpi in testa, fra’, con uno shotgun” o una traccia come Toro Loco che parla, senza mezzi termini, di grandi scopate.
Ora, lungi da me accreditare comportamenti razzisti, sessisti e omofobi però diciamo le cose come stanno, se non capite l’arte – nello specifico il rap, ma potremmo fare lo stesso discorso per il cinema visti i provvedimenti presi contro Via Col Vento o la reazione scatenata dal film Cuties – non approcciatevi ad essa. Fare i perbenisti con l’arte, qualsiasi tipo di arte, è un discorso becero e ignorante. Tutti i tipi di arte devono essere liberi, ovviamente nel rispetto delle persone, ma è difficile trovare prodotti concretamente offensivi. Voglio dire, se un film è ambientato nell’America razzista è ovvio che al suo interno troveremo atteggiamenti tali; traslando il discorso sul rap, è logico che essendo un genere che nasce dalla strada e parla della strada utilizza un linguaggio anche volutamente grezzo e perchè no, ignorante.
Il linguaggio scurrile va contestualizzato, è palese e ovvio che sono frasi che enfatizzano certe situazioni o certe immagini. Il problema risiede proprio in un certo pensiero del politicamente corretto che sta veramente cominciando a paralizzare il mondo, ottenendo tra l’altro l’effetto contrario. Un po’ come i paletti messi negli Oscar per poter vincere il premio “miglior film”.
Quindi, concludendo il discorso, si sta combattendo la discriminazione (qualsiasi essa sia) nel modo più sbagliato possibile. Il politicamente corretto sta ammazzando il pensiero, l’arte, tutto. Tra l’altro questo pensiero è implicitamente razzista, basta prendere il caso appena accennato riguardo gli Oscar per capirlo: obbligare qualcuno a assumere una persona solo perché appartenente a una minoranza non è di fatto una cosa razzista?Meritocrazia, competenze e arte dovrebbero essere il motore di un certo mondo e invece si stanno accantonando a causa di discorsi prettamente politici, che non dovrebbero invece far parte di certi universi. Stesso discorso per chi si indigna per delle frasi sporche in un canzone.
Questo è il mio pensiero personale al riguardo, non quello di Rapologia, ma credo sia opportuno far vedere sempre le due facce della medaglia, soprattutto quando si parla di un genere musicale come il rap, troppo spesso infangato senza ritegno in tutta la sua totalità.
17 deve avere l’ambizione di restare
Un joint album di questo calibro deve avere l’ambizione di restare per sempre come pietra miliare. Al netto delle polemiche, pensiamo che possa farcela. Forse non si sono raggiunti livelli stratosferici per tutta la durata del disco, che non è perfetto, ma vedere due rapper così affermati e rispettati alternarsi per un’ora sulle basi è comunque una grande emozione. Potevano fare meglio? Forse. Ma è indiscutibile che qualcosa hanno già lasciato, già solo per il fatto di vedere Jake La Furia tornare a rappare seriamente in un intero disco dopo cinque anni.
In ogni caso, bisogna dare il merito a due artisti che hanno riportato un po’ di canoni che si stavano perdendo in questo genere. La strada, le barre, le punchline e anche una discreta dose di contenuti sono i principi cardine dell’album. Soltanto il tempo ci saprà dire quanto impatto avrà 17, nel frattempo saremo liberi di gustarci un ottimo lavoro, fatto con passione e ambizione, nella speranza che si possa continuare a dare voce ad un genere sempre frainteso ma che riesce a far parlare e discutere, nel bene e nel male.