Siamo stati negli uffici della Sugar per realizzare un’intervista a Speranza: partendo dalla splendida Iris, abbiamo voluto conoscere meglio uno dei rapper più interessanti della scena.
Appena entrati nella stanza nella quale abbiamo realizzato l’intervista a Speranza, ci siamo subito resi conto di avere di fronte una persona autentica, real come si dice nel settore. Il clima, da subito amichevole (complici anche alcune affinità tra noi e l’artista, che scoverete leggendo l’intervista), ci ha permesso di rispondere ad alcune delle curiosità che da tempo avevamo.
Il rapper italo-francese infatti nei mesi passati ha rilasciato pochissime interviste e la sua musica ha sin da subito dato vita a un immaginario affascinante e a tratti misterioso. Il suo nuovo (e primo) disco ufficiale L’ultimo a morire, è uscito da poco ma siamo sicuri – avendolo ascoltato in anteprima – che potrà essere un instant classic. In attesa di sapere il vostro parere a riguardo, vi lasciamo all’intervista. Buona lettura!
Volevo partire parlando del primo singolo tratto da L’ultimo a morire, Iris. Oltre a essere uno splendido brano, mi ha colpito il fatto che si è creata un’attenzione molto forte al brano da parte degli ascoltatori, volta a comprendere il brano e non solo. Inoltre, il brano è abbastanza dark, nonostante il significato dell’iris sia decisamente positivo. Per cercare quindi di colmare i dubbi di un po’ di persone ti chiedo: come è nata Iris? È una dedica al quartiere o ad una ragazza?
«Iris nasce anche da quello che dici tu, dalla positività. L’Iris è simbolo di rinascita, avevo questa idea in testa e l’ho sviluppata sull’idea di un amore un po’ contrastato. Può essere dedicata anche al quartiere metaforicamente ma soprattutto parla di una donna, come dico in alcuni punti del disco. Sono promesse impossibili con un tono di minaccia e di amore, un po’ un controsenso continuo. Però sai com’è, quando l’amore non viene ricambiato lo metti in chiave musicale a modo tuo, è un modo per illuderti di tenerti stretta quella persona».
Dopo aver ascoltato Iris mi aspettavo altre tracce più intime ma così non è stato. Possiamo dire che ne L’ultimo a morire non ti sei snaturato, anzi ti sei evoluto, utilizzando di più l’italiano e approcciandoti anche a sonorità nuove per te. Come è stato il percorso per arrivare a questo disco?
«Nel mio percorso mi ero fermato a Manfredi, poi avrei dovuto pubblicare Iris e dopo un brano francese. Tuttavia è accaduto che dopo Manfredi mi sono approcciato molto ai featuring e ai live e contemporaneamente ho firmato. Questo per dirti che è stato un caso firmare, lo scheletro del disco era già definito».
Avevi in programma quindi un disco?
«Sì assolutamente, era un mio obiettivo. Successivamente però avrei cercato comunque il modo migliore per uscire perché ci tengo che la mia musica e quello che ho da dire arrivi a più persone possibili, per una questione mia personale. Non ci crederai ma davvero per me il discorso economico nella firma era secondario».
Hai detto una cosa molto bella che credo non sia comune a molti, ovvero che vuoi che il tuo messaggio arrivi a più persone possibili. Nel disco, come hai fatto anche in passato, fai riferimenti a concetti vicini alla multiculturalità, parlando ad esempio anche del secolare scontro israelopalestinese. In un momento storico in cui il rap viene spesso considerato diseducativo, trovo che il tuo modo di fare musica sia l’esatto opposto, al contrario di quello che potrebbero pensare molti giudicandoti superficialmente. Senti il peso di dover dare un messaggio alle persone? Credi che il rap debba avere un ruolo in questo senso?
«Il messaggio deve esserci. Lo faccio con la musica ma lo faccio anche nella vita, in prima persona. I messaggi che cerco di dare nel disco spesso sono schiaffi morali che provo a dare per scuotere le persone su alcuni temi. Come hai detto cantare la pace e l’amore sarebbe inutile, mentre così magari qualcuno riesco a colpirlo. La musica può aiutarti però poi le persone devono educarsi autonomamente e capire cosa fare e non fare nella propria vita».
Massimo Pericolo è un tuo amico ed è anche presente nel disco. La vostra storia musicale – e forse umana – è simile: anni fa avresti mai creduto che il vostro tipo di rap potesse arrivare così in alto?
«Non avevo né il rancore verso chi ce la faceva né una voglia di sfondare che mi toglieva la vita. Ho sempre fatto musica perché volevo farla, se fosse arrivata alle persone meglio, ma in primis lo facevo per me e per la gente mia. Quando sono tornato in studio per fare Sparalo! avevo in testa di farlo per i casertani, non avrei mai immaginato arrivasse a Milano. Quando pubblicai il video su YouTube ero con Barracano e gli dissi se fosse arrivato a 1000 views sarei stato felice. Per fortuna è andata molto meglio».
Per quanto riguarda le altre collaborazioni come sono nate? C’è qualcuno che è rimasto fuori?
«Al di là delle scelte artistiche sono state collaborazioni dettate dall’amicizia. C’è qualcuno che avrei voluto inserire oltre ai presenti, come Noyz, con il quale avevo già fatto un brano, ma doveva andare così. Con Vane un po’ se lo aspettavano tutti e ci tenevo affinché ci fosse, con Guè ho voluto farlo perché è stato uno dei primi a spingermi e ho voluto dare un lieto fine alla storia…».
E Rocco Gitano?
«Sei pescarese mi hai detto, quindi sai che personaggio sia (ride,ndr)».
Già solo leggerlo nella tracklist è un bel messaggio. Sei stato coraggioso a inserirlo e anche l’etichetta a permettertelo…
«Chi l’avrebbe mai detto che avrei avuto Guè e Rocco nello stesso disco (ride, ndr)».
Negli anni passati hai girato un po’ per l’Europa: qual è l’influenza culturale che ti ha segnato di più? Credi che per alcune sfumature la tua musica possa essere non compresa fino in fondo in Italia?
«Nella mia musica c’è un tocco francese ma non è voluto, nel senso è spontaneo per me venendo da lì. Credo però che l’Italia stia cominciando ad apprezzare alcune cose, essendoci anche più dialogo musicale tra Francia e Italia rispetto anni fa. Sono felice di aver portato un certo stile qua che alcuni non pensavano potesse esistere».
C’è un filone musicale o un artista preciso che ti ha influenzato di più?
«Il rap in Francia è cultura, è tutto, soprattutto nelle periferie. Non c’è uno nello specifico, è il contesto che mi ha influenzato più che un artista. Ne ho ascoltati così tanti che dovrei dirli tutti. In Italia invece non ascolto tantissimo rap, ho sempre avuto un po’ paura di farmi influenzare».
Un’ultima curiosità: nei commenti di Iris su YouTube si è creata una discussione sulla barra “Fai il caffè ai carabinieri, prego, lei che mi ha messo ai domiciliari”: secondo alcuni il “lei” è riferito a una ragazza, secondo altri al carabiniere stesso. Qual è la verità?
«Sono felice che le persone se lo stiano chiedendo perché il mio obiettivo era proprio questo, lasciare un significato aperto, in modo che ognuno ci possa leggere quello che desidera. Lo faccio spesso».