A vent’anni di distanza, The Marshall Mathers LP di Eminem è ancora un disco irripetibile.
Nel 2000 uno scrittore appena trentenne fa la sua irruzione sulla scena letteraria statunitense. È Dave Eggers e il suo primo lavoro, L’opera struggente di un formidabile genio, diventa immediatamente un vero e proprio caso letterario, scelto come libro dell’anno dalla rivista Time – e da tanti quotidiani di spicco – e valevole un posto in lizza per il premio Pulitzer, categoria non-fiction. L’opera è, infatti, un memoir, una sorta di diario romanzato dell’autore, in cui Eggers ripercorre la propria gioventù segnata dalla morte di entrambi i genitori in poco tempo, che lo costringerà a prendersi cura di Toph, il più piccolo dei fratelli. Il luogo di partenza è Lake Forest, nell’area metropolitana di Chicago, ma presto ci si sposta tra Los Angeles e San Francisco.
Eggers è un genio fuori dalle righe, incompreso lui e che nemmeno prova a comprendere la società che lo circonda. Cresce tra lo squallore del Midwest americano, lo rinnega pur portandosene addosso le stimmate, ma si trasferisce sulla costa occidentale, così all’avanguardia e piena di vita, ma anche così ipocrita nella sua facciata.
Nel 2000 Eminem di anni ne ha 28 ed è più vicino a Dave Eggers di quanto le rispettive storie personali possano far pensare. Anche lui è un figlio del Midwest – non di Chicago, ma di Detroit – e, rispetto allo scrittore, da contesti di maggior sofferenza sociale ed economica. Anche lui, come Eggers, parte dal Midwest alla volta della California, che è la rappresentazione topografica del successo. Anche lui, soprattutto, si porta dietro le spigolosità del luogo da cui proviene, che mal s’incastrano invece con il luogo in cui si ritrova. Il suo album d’esordio, The Slim Shady LP, dal successo più che clamoroso, è stato un prodotto (di punta) del Midwest, di quella parte di Stati Uniti vista con gli occhi di un personaggio – più che una persona – assolutamente sopra le righe, un freak che ha preso su di sé le storture della sua zona di provenienza, i suoi luoghi comuni, e li ha fatti esplodere o li ha estremizzati.
Nel 2000, però, Eminem è già Eminem, è passato solo un anno dal primo lavoro, ma ideologicamente siamo già davanti a un altro rapper, ormai completamente affermato. Le sue storie ruotano ancora tanto intorno a Detroit, ma adesso il suo orizzonte di riferimento è Los Angeles. Ha già compiuto lo stesso percorso verso l’ovest fatto da Dave e Toph sulla station wagon che era stata del padre.
Inevitabilmente, The Marshall Mathers LP, il secondo album capolavoro del rapper di Detroit, ripropone questo trasferimento ideologico e proprio da esso trae la sua dirompenza. L’album è quasi polarizzato nella rappresentazione del conflitto tra Eminem – e i suoi alter ego – e l’ambiente nel quale si ritrova. È una lotta che vede un personaggio estremo – ripeto, personaggio! – e deviato contrapporsi a un ambiente cristallizzato intorno al politicamente corretto, ma in realtà corrotto e incancrenito. Questo scontro a volte assume connotati ironici e stravaganti – The Real Slim Shady su tutte – altre volte si poggia su toni seri e quantomai decisi – The Way I am e Who Knew.
The Marshall Mathers LP, come il suo precedente, è lo sfogo di un personaggio a tratti disfunzionale. La differenza, però, sta nell’approccio. Nel disco d’esordio Eminem si era chiuso principalmente nella sua interiorità, lì aveva sversato la sua rabbia, e l’unica apertura all’esterno era la sua presentazione al mondo con My Name Is.
In The Marshall Mathers LP il rapper di Detroit si apre all’esterno, punta direttamente il dito contro chi di quella rabbia è la causa, contro chi prova a costringerla nei lacci di ciò che è socialmente accettato. Tutto l’album è un’accusa all’establishment dello showbiz e al moralismo della società statunitense, criticato per il suo perbenismo ai confini della censura (che effettivamente sarà un problema affrontato da Eminem). Paradossalmente, sedici anni dopo, queste argomentazioni verranno riprese dai sostenitori di Trump, a loro volta tanto criticati proprio dal rapper di Detroit.
Ciò che ha reso Eminem e The Marshall Mathers LP così di successo è proprio l’elemento di rottura rispetto a tutto ciò con cui l’artista di Detroit venisse a contatto. Il Marshall Mathers di quel periodo è altro rispetto alla scena rap di quel tempo per stilemi, attitudine e narrazione di sé (mi rifiuto di considerare il colore della pelle, nonostante molti, ottusamente, indichino anche questo come elemento determinante). È altro rispetto all’industria musicale, che però si trova in brevissimo tempo ad avere lui tra i dominatori delle classifiche. È altro rispetto al dibattito pubblico a stelle e strisce, messo in difficoltà da quel rapper così evidentemente esagerato da rendere difficile sia prenderlo sul serio dal punto di vista morale che ignorarlo, vista la brutalità dei suoi testi.
The Marshall Mathers LP costringe l’ascoltatore a puntare gli occhi su quel biondino, obbliga a prendere una posizione, non può lasciare neutrali.
A vent’anni di distanza dall’uscita dell’album l’osservazione che più viene da fare – e che assume alcuni connotati del rimpianto – è legata proprio a questo aspetto. L’essere anti-sistema, l’opporsi a tutto ciò che c’era in quel momento, è stata sia la chiave del successo di Eminem per i suoi primi due album, sia un’agrodolce condanna. Perché se è vero che da lì in poi il rapper di Detroit è diventato una star intoccabile, sia per esposizione che per considerazione, è innegabile che da quella vetta sia iniziato il suo declino artistico, in alcuni momenti più lento, in altri più veloce.
Sia chiaro, ogni disco di Eminem sarà sempre, inevitabilmente, un disco di successo e di cui si parlerà, ma quanti suoi album, dopo The Marshall Mathers LP, hanno effettivamente segnato la scena musicale – non solo quella rap – e il dibattito pubblico? Probabilmente nessuno. The Eminem Show è stato un ottimo disco, ma deve il suo successo all’essere stato la buona conferma di un artista già assolutamente affermato, non ha messo un punto nella sua epoca musicale per motivi propri, intrinseci. Eminem ha prodotto altri buoni lavori, alcuni magari più sentiti di altri perché hanno assunto un significato particolare rispetto alla sua carriera, ma che non hanno avuto l’impatto culturale – o controculturale – di quei primi due lavori. Se devi la tua ascesa all’esserti presentato come anti-sistema, quando quello stesso showbiz tanto attaccato ti ingloba elevandoti a sua celebrità, qualsiasi tentativo successivo di rottura risulta meno credibile. Per mantenere lo stesso impatto sarebbe necessario reinventarsi, concentrare il proprio focus su altri aspetti, e questo Eminem l’ha fatto solo in parte.
A vent’anni di distanza da The Marshall Mathers LP, il vero lascito artistico di quest’album, però, è più profondo, a sé stante rispetto al resto della carriera di Eminem, ed è una lezione, la rappresentazione d’un modo d’essere che dovrebbe appartenere a chi fa arte. È l’anticonformismo, in tutte le sue possibili sfaccettature, elevato a programma artistico, la rappresentazione della propria unicità come principale elemento di cui tener conto. Il dover far riferimento solo a se stessi, nonostante una nazione intera – o quasi – ti indichi come una minaccia per la propria integrità morale.
Avere quest’orgoglio, questa sfacciataggine, ma allo stesso tempo questa grande consapevolezza è ciò che separa gli artisti-intrattenitori dagli artisti d’impatto, quelli che non cavalcano o attraversano semplicemente il proprio tempo, ma lo segnano. Ecco, a vent’anni di distanza da The Marshall Mathers LP è ancora più evidente la firma messa da Eminem sulla musica di questo millennio.