Abbiamo avuto modo di intervistare Maruego in occasione del suo ritorno sulle scene.
Oltre che dal singolo NCCAPM, il ritorno di Maruego sulle scene è stato anticipato da una serie di podcast in cui ha raccontato uno spaccato sia di vita privata, che artistica.
Abbiamo parlato di tutto questo e molto altro nella nostra intervista con lui.
Ciao Maru, quando hai capito che era il momento giusto per tornare sulle scene? Da dove nasce l’idea di realizzare un podcast per annunciare il tuo ritorno?
«L’idea di pubblicare qualcosa di mio sotto forma di podcast nasce da un’esigenza di esternare alcuni aspetti della mia vita che con le rime non avrei potuto trasmettere al pubblico fino in fondo. Sentivo il bisogno di dovermi sfogare e di raccontare aspetti della mia vita pressoché sconosciuti.»
Ti abbiamo sentito parlare dell’esperienza in carcere, del tuo rapporto con l’alcool, del legame con tua madre e con le persone che hai avuto a fianco; da questi racconti arriva forse più la componente personale che artistica. Quanto è difficile aprirsi con il pubblico senza l’ausilio della musica in merito a questioni così private? Cosa speri possa arrivare più ogni altra cosa alle persone di questa serie di episodi?
«Di solito chi ti segue lo fa per la musica, ma in questo caso, approcciandomi al pubblico a cuore aperto, ho mostrato me stesso per quello che sono, senza la paura di essere giudicato. Alla fine, come sostiene anche Marra, tutti noi passiamo dei momenti positivi e altri negativi. Negare un fallimento è già di per sé un fallimento. Vorrei creare un rapporto sincero con il mio pubblico, il che non significa postare foto a caso ogni giorno; non serve essere sempre presenti sui social network con foto ad effetto per farsi vedere vicini al proprio pubblico.»
Il mercato della musica oggi viaggia ad una velocità incredibile e così come la musica in sé cambia radicalmente in soli pochi mesi per via delle nuove influenze e le nuove leve, lo stesso succede al pubblico che la fruisce; il rap non è certo estraneo a tutto questo. Se ciò accade in tempi molto brevi, in quasi due anni il cambiamento è ancora più evidente. Credi di esserti destreggiato a sufficienza in questo mondo da sapere esattamente come arrivare al pubblico che ascolta il rap nel 2020 e magari non conosce tutto il tuo percorso artistico?
«Devi avere otto occhi, guardarti intorno, anticipare, fare la differenza. I nuovi, i più giovani e con la faccia bella pulita, oggi sicuramente hanno più fiato degli altri. Ma in questa gara senza arrivo conta quanto ti reggono le gambe, quanto riesci a resistere ai crampi. Conta sostanzialmente il distacco che riesci a dare. Non tutti sono lì a tifare per te, ma se arrivi primo lo vedono tutti.»
Sono dell’idea che ci sia un momento per tutto e spesso certe strade, per quanto abbiano dato risultati positivi in passato, non siano ad oggi più percorribili. Artisticamente parlando, cosa ti porti dietro di ciò che hai fatto negli anni e cosa invece pensi non sia più il caso di ripetere?
«Con gli anni mi porto dietro solo le esperienze, negative e positive. Tutto ciò che viviamo ci forma, è una vera e propria benedizione, credetemi. Quando le cose andavano come volevo desideravo che andassero leggermente meno bene perché non avevo più niente da raccontare. Il vero disagio ormai l’avevo già superato, i miei testi stavano diventando materialisti, superficiali e banali, stavano diventando ciò che non volevo poiché le mie canzoni migliori sono quelle dove metto pathos e nelle quali la gente vive la mia storia sulla propria pelle.»
La musica ha, tra i tanti meriti, il fatto di unire e creare integrazione. Tu sei stato uno dei primi con il brano Sulla stessa barca, a parlare di un tema oggi particolarmente caldo, quello dell’immigrazione. Al tempo stesso, non hai mai mancato di utilizzare termini della lingua araba e sonorità tipiche orientali. Ti sei mai sentito in dovere di fare tutto questo? In futuro, pensi di continuare a farlo in maniera così importante come in passato?
«Sì, ma con un occhio di riguardo. Mi butto nelle situazioni solo se sono sicuro di poterne uscire fuori indenne. Sulla Stessa Barca, ai tempi, poteva sembrare un pezzo in cerca di consensi, ma in verità volevo solo descrivere una situazione a molti sconosciuta; lo devi fare perché te la senti, non perché devi. Oggi muore un artista o un atleta, la gente è lì intenta a pubblicare foto o dediche, per me è una mancanza di rispetto. Bisogna sempre agire con criterio e se lo fai è perché questa cosa ti tocca davvero dentro; quando è morto Nipsey mi faceva rabbia vedere le sue foto in mano ai tredicenni, utilizzate strumentalizzate solamente per cercare consensi…»
“Se son qui è perché ci dovrò restare, io nel game ho il mio posto, sono il quirinale”. Da queste barre del tuo nuovo singolo NCCAPM, si evince la tua presa di coscienza in merito alla tua posizione nel rap game. A tratti, sembra quasi un arrendersi all’evidenza di un destino che ti spinge a rimanere in quest’ambiente. Quando hai capito davvero che non avresti potuto fare altro che musica?
«Già a sei anni; ero sempre davanti allo specchio a immaginarlo. L’ho immaginato così tanto che è diventato realtà, ma ci è voluto tanto. Era la mia passione, un desiderio reale, per nulla legato a mode o cliché del momento. Il fatto stesso che oggi, a distanza di anni e nonostante l’esserci “riuscito”, continuo a immaginarlo allo specchio e a fantasticare sul fatto di diventare un rapper, mi fa capire ogni giorno di più che non ho altro nella testa. Ormai ho rinunciato a qualsiasi cosa che non sia la musica, facendo sì che questa diventi l’unica mission della mia vita.»
“Anche se ho cambiato in MaRue ho la faccia da Maruego”. Possiamo dire che la breve parentesi del cambio di nome sia stata ostacolata dal lascito troppo importante che ormai avevi dato al rap come Maruego?
«La parentesi MaRue non è andata come volevo perché in quel momento ero l’unico a gestire il tutto e senza un vero e proprio team ad oggi non vai molto lontano. Ti dirò che la parentesi MaRue probabilmente non è ancora finita, chissà…»
Durante un episodio del podcast in cui parli del tuo incontro con i 2nd Roof, racconti di come tu abbia scritto in fretta per riuscire a chiudere e portare a subito a casa un progetto per vera necessità. Oggi accade lo stesso, gli emergenti si buttano a capofitto in questa “cosa del rap”, ma la motivazione è ben diversa: sembrano volere tutto e subito. Il senso del sacrificio, il rispetto delle attese, non esiste più. Credi che questo sia determinante nella carriera di un nuovo artista? Ciò che accade con troppa facilità non rischia di essere altrettanto facile da perdere?
«Credo che sconfitte, delusioni e attese siano essenziali per una corretta formazione artistica perché prima o poi arriva per tutti il momento della discesa e solo in quel momento vedi chi merita davvero e chi invece ha avuto solo fortuna. Io amo le sfide difficili perché come dicevo prima, ti formano e molte di queste “nuove leve” dei giorni d’oggi ne hanno proprio bisogno.»
Hai aperto questa serie di podcast citando un libro che personalmente ho letto e riletto infinite volte: L’alchimista di Coelho. Hai creato dei parallelismi tra le tue vicende personali ed episodi centrali del racconto del protagonista, Santiago. Ci sono altre letture che ti hanno particolarmente colpito e senti di consigliare a chi leggerà quest’intervista?
«Ho scoperto l’amore per la lettura, colpevolmente, molto tardi: il primo libro che ho acquistato fu Io Ibra. Non mi ero mai interessato ai libri, ma dopo quell’esperienza mi misi alla ricerca di altri racconti “motivazionali” che mi aprirono un mondo: Il Giovane Holden, Siddartha di Herman Hesse, letture di Murakami Haruki e molti altri un po’ meno conosciuti. L’Alchimista di Coelho è il libro che ho letto più volte; mi coinvolge molto, mi fa sentire protagonista della storia.»
Ringraziamo Maruego per il tempo che ci ha concesso e rimaniamo in attesa di scoprire quali saranno le novità che ci attendono da parte sua per questo 2020.