Rendere onore a Mac Miller non vuol dire venerarlo.
Quando ci arrivano certe notizie, ci viene automatico catalogarle in maniera diversa rispetto ad altre in base all’effetto che hanno avuto su di noi in quel preciso momento. Capita, così, che ricordiamo per tutta la vita dove eravamo e che stavamo facendo quando abbiamo letto anche un semplice messaggio, o quando abbiamo ricevuto una determinata telefonata.
Quando, un anno fa, ricevetti la notizia della morte di Mac Miller era sera tardi, ero fermo a un semaforo di una strada desolata della provincia di Caserta, diretto verso casa della mia ragazza, ben sapendo che quella sera ci saremmo lasciati. Pochi giorni prima era morto mio nonno – altra notizia di quelle che ti fanno ricordare per sempre il momento, ovviamente – e sapere che uno dei miei artisti preferiti se n’era andato così giovane e in maniera così tragica poneva definitivamente l’etichetta di settimana di merda su quei primi giorni di settembre.
Da allora, da parte mia, è cominciato qualcosa di strano. Il Mac Miller artista avevo già avuto modo di conoscerlo, approfondirlo e appassionarmici negli ultimi anni. Nell’immensità ed eterogeneità del rap americano il suo approccio più personale, più intimo, mi sembrava potesse avvicinarsi di più alla vita di un ragazzo della provincia italiana. O meglio, quando un artista canta dei cazzi suoi è facile ritrovarci all’interno anche un po’ dei propri. E così era stato anche per me.
Dopo la sua morte, però, ho iniziato a tentare di scavare sempre di più nell’universo personale di Mac Miller, quello legato al suo carattere. E quindi via di interviste guardate fino allo sfinimento, documentari, video pubblicati sui social e chi più ne ha più ne metta. Stavo alimentando un mio desiderio, quasi come negazione di un lutto che in realtà mi aveva colpito solo come fan, ma così facendo commettevo il peggior torto possibile. Spesso, infatti, l’ammirazione per un artista lo trasforma ai nostri occhi, facendolo diventare un feticcio.
Il feticcio è un oggetto di culto all’interno di una società. È uniforme, non ha tratti caratteristici, è un fantoccio piatto, senza peculiarità. Ogni volta che trasformiamo un artista in un oggetto da venerare, ne annulliamo automaticamente le complessità e le contraddizioni che hanno fatto sì che c’innamorassimo della sua arte. È il peggior tradimento – seppur inconsapevole e mosso dalla passione – che un ascoltatore possa fare nei confronti del suo cantante preferito.
Questa reazione non è stata solo mia, ovviamente. L’affetto collettivo nei confronti di Mac Miller con la sua morte si è trasformato in una sorta di culto, che, come tale, può avere manifestazioni sane o negative. Nel primo gruppo rientrano la veglia tenuta dai suoi fan l’11 settembre 2018 al Blue Slide Park – il parco di Pittsburgh, sua città natale, che diede il nome al mixtape che fece conoscere definitivamente Malcolm al mondo – e il concerto di beneficenza in suo ricordo organizzato per il 31 ottobre dello stesso anno a Los Angeles. Ben peggiori e necessariamente condannabili sono stati, invece, i folli attacchi rivolti ad Ariana Grande – che, come tutti sapranno, è l’ex di Mac Miller – accusata di essere stata la causa della sua morte.
Ovviamente non avrebbe senso né sarebbe corretto mettere nello stesso calderone due cose così diverse. Da una parte ci sono dei fan che vogliono rendere un ultimo omaggio al proprio idolo, dall’altra degli invasati incapaci di avere rispetto per il dolore. Sono, però, (sempre con i dovutissimi distinguo) due azioni che rispondono al desiderio di mantenere il contatto con un artista ormai defunto trasformandolo in culto.
L’antropologo Robert Hertz parlava della morte come di uno scandalo, come minaccia alla coesione del gruppo sociale che si vede privato di un proprio elemento. Così il “gruppo sociale” – in senso lato – dei fan di Mac Miller ha perso il proprio equilibrio essendo venuta meno la propria ragione d’essere. Ha reagito, quindi, cercando di tenere Malcolm attaccato a sé in ogni maniera possibile.
In realtà, a ben vedere, è proprio la musica di Mac Miller quanto di più lontano ci sia dal concetto di equilibrio. Al di là dell’evoluzione musicale propria di ogni artista che si rispetti, la discografia del nativo di Pittsburgh è un elogio alla precarietà e alla mutevolezza. Il quadro ce lo dà proprio Swimming, l’ultimo album, uscito circa un mese prima della sua morte e che si apre con una frase eloquente in questo senso. I was drowning, but now I’m swimming. Stavo annegando, ora sto nuotando: in entrambi i concetti c’è l’idea di movimento, di situazione instabile, umanamente e solo dopo artisticamente.
Non ha senso cercare nel mare magnum della musica di Mac Miller verità incrollabili o convinzioni salde. Così come non ha senso ricercarle nella sua morte, ansiosi di trovare motivazioni o, peggio, colpe e colpevoli. Il rapper di Pittsburgh, con la sua arte, non ci ha chiesto né di compatirlo per la fine tragica, né di elevarlo a entità superiore. Ci ha solo raccontato la sua vita, i suoi amori, il suo rapporto col successo, con i soldi, le droghe e le paure di tanti ragazzi. Il suo lascito, il motivo per cui il legame con chi l’ha seguito è così forte, deriva dall’aver messo insieme tutti questi elementi e di aver fatto pace con le proprie contraddizioni, di averle accettate e aver deciso di buttarle all’esterno nelle sue canzoni. La sua profondità deriva dall’alternanza di luci e ombre, ugualmente presenti. Da qui inizia la via sempre più intima che hanno preso i suoi dischi con il passare del tempo, con uno scatto tangibile soprattutto tra GO:OD AM e The Divine Feminine.
In un video di recente apparizione su YouTube (parte della docu-serie Shangri-La di Showtime) in cui Mac Miller incontra Rick Rubin c’è l’impostazione fondamentale dietro la sua musica.
“The goal here is to be as much me as possible.”
Per questo elevare l’autore di Swimming a feticcio non solo è sbagliato, ma non gli rende onore. Il modo migliore per ricordarlo, a un anno dalla tragica scomparsa, è apprezzarne l’arte e omaggiarla, come ha fatto Ty Dolla Sign al Tiny Desk di NPR Music. Questo è giusto fare con un musicista straordinario e, sempre, as much him as possible.