Metti un ragazzotto di quarant’anni con anni di rap alle spalle – da fan e artista (celebri le sue battle di freestyle, come quella con Fibra) – a fare un disco di diciotto tracce: il risultato, non può che essere un prodotto maturo.
Già vi immagino a pensare “ecco, l’ennesimo articolo che parla di quanto i rapper più vecchi siano migliori di quelli di oggi”, ma mi spiace, siete fuori strada. Partiamo da un fatto oggettivo: numeri alla mano, per tutta una serie di ragioni, i rapper sulla quarantina ancora all’attivo oggi, non sono molti. Tra le fatiche discografiche recenti di quest’ultimi non è facile trovare dei prodotti particolarmente validi, anche solamente per un discorso statistico: se ci sono pochi artisti, ve ne saranno ancora meno di capaci, soprattutto paragonandoli al livello attuale.
A questo si va ad aggiungere il fatto che difficilmente questi pochi prodotti arriveranno alla maggioranza degli ascoltatori del rap italiano, in parte per la conformazione attuale del sistema discografico italiano e in parte, forse, per la tipologia di ascolti che lo zoccolo duro di questo genere predilige.
Un disco che ha avuto questo destino, ad esempio, è stato l’ultimo di Tormento, Dentro e Fuori, del 2015. Un album che aveva tutte le carte in regola per raggiungere buoni numeri: prodotto da Thaurus, con all’interno diversi nomi importanti, alle macchine e al microfono. Un disco fresco musicalmente, la cui unica pecca (per modo di dire) era quella di non essere un LP di facile ascolto, ma al contrario pregno di vissuto, di contenuti come si suol dire. Un insuccesso che non a caso ha commentato recentemente in modo abbastanza disilluso anche lo stesso artista su Instagram.
A tutto ciò poi si vanno ad aggiungere le conseguenze deleterie del modo di fare poco limpido di alcune testate di settore, tra chi chiede soldi per pubblicare news e chi non considera artista chiunque abbia meno di 10k su Instagram. Per tutti coloro che ascoltano ed amano il rap, questa situazione dovrebbe risultare abbastanza triste. Non per una questione di giustizia, ma semplicemente perché in tale modo si va a disperdere tanta buona musica.
Cosa c’entra tutto questo con Kiffa? Il rapper torinese, classe 1979, qualche settimana fa ha deciso di pubblicare Clessidra, il suo nuovo disco – arrivato a quasi otto anni dalla sua ultima fatica discografica, In My Room – senza troppa promo, senza un comunicato stampa e da indipendente. Dagli addetti ai lavori potrebbe sembrare un suicidio discografico ma alla fine se i risultati con sforzi economici (e non) maggiori sarebbero stati quasi gli stessi, ne sarebbe valsa la pena?
Alla fine è sempre la musica a dover parlare, e in Clessidra di Kiffa musica ce n’è davvero tanta.
Se già con il precedente album Kiffa diede vita a delle atmosfere molto intime e personali, raccontando minuziosamente sfumature di vita e relazioni senza mai cadere nel banale, con
Clessidra potremmo dire che ha proseguito in maniera ancor più netta in tale direzione, allargando anche ulteriormente il raggio d’azione. In È tutta colpa dei 40, ad esempio, l’artista si mette totalmente a nudo di fronte all’ascoltatore, parlando di una sua importante storia d’amore recentemente conclusa.
Riferimenti simili vi sono anche in Tutto inizia / Tutto finisce o in 51/50 (Non è amore) e a nostro avviso questi topic sono proprio gli apici lirici del disco. Per quanto l’album, considerata anche la lunghezza, sia davvero vario – passando da racconti di serate in tracce come Le Mans, La febbre del sabato sera e Taxi driver nell’oscurità, nella dedica all’hip hop in Golden Years Remix con Dj Dops o nei riferimenti calcistici di Denmark 1992 – quando Kiffa scrive di rapporti umani crea un’atmosfera quasi unica.
Oltre ai succitati brani, impossibile non citare anche i flussi di coscienza di brani come Chi è il tuo nemico, A volte non è facile ripartire da zero, Quanto mi piace camminare, nel traffico di queste strade e Come è difficile dormire quando hai 1000 cose in testa. Tracce lunghe, fin troppo per alcuni ascoltatori abituati ad altro, ma pregne fino al midollo di esperienze di vita e digressioni nell’Io del rapper.
Un interessante paragone che potrebbe aiutare qualcuno a comprendere la figura di Kiffa potrebbe essere quello con l’importante scrittore portoghese Fernando Pessoa. I due a nostro avviso sono accomunati da un modo di scrivere decisamente personale (alcuni pensieri contenuti ne Il libro dell’Inquietudine dell’autore hanno riferimenti davvero simili ad alcune barre del rapper), dai frequenti richiami alla propria città (Torino per il primo, Lisbona per il secondo) e dalla “doppia vita” che svolgevano: se il rapper piemontese nella vita è geometra, l’altro era un impiegato qualsiasi ed entrambi, stando attenti a ciò che hanno scritto, hanno ammesso di amare scrivere di sera e di notte, dopo le fatiche lavorative.
Non ultimo, Clessidra di Kiffa è il disco che è anche grazie agli sforzi dei diversi produttori (Kavah, Deal The BeatKrusher, Aleaka, Freeso, Judah, Zerokappa, Sir Donuts e Milo), alcuni conosciuti (soprattutto nell’underground), altri meno, ma la totalità delle loro produzioni ha contribuito a dare vita ad un prodotto di indubbia qualità.
In una recente intervista Ernia ha affrontato un discorso interessante, affermando che secondo lui gli ascoltatori pretendono troppo dalla sua musica, non comprendendo, a suo avviso, che un artista giovane ha dei limiti dettati proprio dalla sua età e dalle esperienze vissute, che per quanto possano essere particolari, sono sempre meno di una persona più grande.
Se è davvero così, c’è bisogno che dischi come Clessidra di Kiffa arrivino a più persone, per dimostrare che il rap adulto (passateci il termine) può e deve esistere per il bene di tutto il movimento, provando a concretizzare una presa di coscienza nei confronti del genere (che forse in altri Paesi è già ben consolidata).