Abbiamo intervistato Rido MC in una bocciofila di via Padova a Milano, a ridosso di una storica hall of fame. Questo è quello che ci ha raccontato.
Tutti lo conoscono. Per lo meno a Milano. Ma anche in Italia (con dei grandi lanci all’estero), Rido MC rimane un riferimento della scena hip hop, degli anni che si sviluppano, dell’idea. Un personaggio unico per saggezza e innovazione, per simpatia e professionalità, per accettazione e coraggio.
Rapologia lo ha intervistato, avendo ancora una volta la conferma che l’hip-hop non è morto. Anche perché, l’hip hop che ci racconta Rido, non sta solo nella musica. O nel writing. O nella trap. È qualcosa di più.
Ciao Rido, benvenuto su Rapologia.
«Che bello essere qui.»
Ti lasciamo presentare da solo, soprattutto per i più giovani che ci leggono.
«Io sono Maurizio Ridolfo, mi conoscono tutti come Rido dai tempi delle elementari, ancora prima del rap perché è il diminutivo del mio cognome. Sono diventato poi Rido MC quando ho cominciato a fare rap attorno ai quindici o sedici anni. Insieme al Supa ho fondato un team che si chiama Cricca Dei Balordi, che c’è ed esiste. Ho fatto parte e faccio parte del collettivo Sano Business, insieme a Bassi Maestro e Dj Zeta. Ho tanti amici nel mondo del rap che mi porto dietro da una vita e questa è una cosa bella.»
I più vecchia scuola ti conoscono come Cricca Dei Balordi. Prima era Fondazione Cracka?
«Fondazione Cracka era il nome del primo nostro demo. Che siamo stati così tanto fortunati da registrare alla Fortezza della Scienze (lo studio di Bassi, ndr).
Siamo stati, dicevo, così fortunati da avere una carriera prima dal vivo che pubblicando delle cose. Per cui diciamo che nella metà degli anni novanta, avevamo già qualche concerto alle spalle tra provincia, centri sociali e luoghi di aggregazione dell’hinterland milanese e, la prima cosa che abbiamo fatto quando abbiamo cominciato a collaborare con Bassi, è stato fermare i pezzi che avevamo già scritto e suonato dal vivo e tramutarli in un demo. Demo che è stato prodotto per molte cose da Double T, qualcosa da Bassi, Fritz da Cat qualcosa da Goedi Microspasmi. Ma non è stata la nostra prima pubblicazione, perché la prima vera cosa è stata De Stijl, una traccia apparsa sul primo disco del già citato Fritz Da Cat.»
“L’hip hop mi ha insegnato la voglia di fare”
Cosa ti porti dietro di tutto quel percorso?
«Allora, mi porto dietro la voglia di fare. Perché è il punto di partenza e il punto di arrivo. Siamo ragazzi che sono nati in provincia dove non ci sono tantissime opportunità per fare network, come si dice adesso, cioè incontrare delle persone e svilupparci dei progetti e delle idee insieme. Ma avevamo delle grandi potenzialità e molta voglia. E allora ci siamo mossi, per fare in modo che le cose che volevamo fare accadessero. Attraverso un programma in radio che avevamo io e il Supa quando eravamo ancora più piccoli e non facevamo ancora rap veramente, attraverso il contattare tutti i gruppi che facevano qualcosa che assomigliava al rock, al rap, al funk in provincia, per riuscire a suonare insieme, a frequentare posti dove i musicisti si incontravano e sviluppavano magari qualche idea innovativa.
Parlarne adesso sembra una cosa incredibile, perché stiamo tutti a un giro di contatto tramite Instagram, tramite internet in generale, ma all’epoca era veramente uscire di casa per fare qualcosa. E quello lo abbiamo sempre fatto e continuiamo a farlo, quindi la cosa che mi porto dietro è, in realtà, la voglia di fare qualcosa. Di convogliare capacità e creatività in un progetto reale, tangibile, che sia da portare avanti, magari non da solo ma con qualcun altro. Quindi il concetto di crew, di fare le cose insieme, di crescere anche insieme, di sviluppare delle idee.»
Quali emozioni ti ha dato cantare sul palco. E poi, ti manca quella dimensione?
«Quella dimensione non mi manca perché fortunatamente ho tante occasioni per avere quel genere di adrenalina che ti danno gli eventi dal vivo. Un’altra delle cose che mi ha lasciato il rap di quegli anni è stata la capacità di stare sul palco che ho tramutato più o meno sapientemente nel saper condurre degli eventi, nel saperli scrivere, progettare e programmare, quindi la mia attività di conduttore di eventi dal vivo c’è ancora adesso. Per cui calcare il palco con un microfono in mano è una cosa che mi piace fare, mi piace stare di fronte alle persone. Che era il motivo per cui, banalmente, ho cominciato a calcare i palchi e fare rap.
Il rap era lo strumento che mi permetteva, che mi permette, di convogliare le mie idee su un palcoscenico. Ancora adesso, nella progettazione di eventi, e nella loro conduzione, sono idee mie che, in qualche maniera, porto agli altri attraverso il microfono su un palcoscenico, per cui non ci trovo tanta diversità. Il rap mi dava in più la capacità espressiva di dire la mia. Realmente di dire quale fosse la mia visione del mondo, metterla in rima e condividerla con gli altri.
Quella cosa un po’ mi manca, perché non ho più trovato quello stimolo che avevo agli inizi. Un po’ non mi manca perché, visto che non ho più quello stimolo che avevo agli inizi, sono sereno con me stesso nel dire, ok quando ci sarà di nuovo quello stimolo, sarò il primo a cavalcare quell’onda, ma non mi sento obbligato a farlo. Quando ho qualcosa da dire parlo. Che è un’altra delle lezioni che mi ha insegnato il rap.»
La scena è cambiata tanto negli anni. Qual è la tua personale fotografia di quello che sta succedendo?
«Allora, è vero, la scena è cambiata tanto anche perché sono passati, allegramente, vent’anni? Trenta? Venticinque? Un sacco di tempo. Sono un ragazzo di quarantaquattro anni che faceva rap da quando ne aveva quattordici, per cui sì sono passati veramente trent’anni. È normale che siano cambiate le cose, come è normale che ci siano stati diversi cambiamenti di fronte e giramenti di pagina.
Noi siamo stati protagonisti come generazione di un cambiamento di fronte, di un voltare pagina una ventina di anni fa. È normale che di pagine se ne siano girate delle altre. È normale che in qualche maniera, in questo cambiamento, non tutti ci riconosciamo nelle cose che ci sono adesso. Ma è anche normale che, nelle cose che ci sono adesso, qualcuno possa trovare un’identità. No? Matrici di qualcosa che è rimasto. Una delle cose che mi ha sempre affascinato dell’hip hop è stata la capacità di sapersi reinventare, non la capacità di essere uguale a se stesso sempre. Quella è una rottura di p***e. Ho sempre definito vetuste alcune maniere di pensare in musica o della cultura in generale quando decidevano di restare uguali a loro stesse. Il rock, il quale più volte è stato paragonato all’hip-hop internazionalmente, ha cominciato a spegnersi nel momento in cui è rimasto uguale a se stesso. L’hip-hop come concetto rischia sempre di essere incastrato nei vecchi cliché della old school, dello spirito originale. Quando si costruisce una cosa, si rischia sempre di rimanerne ingabbiati, quindi non cambiare nel tempo.
Io non voglio trovarmi, alla mia età, ad essere appassionato a una cosa che in realtà è incastrata nella mia gioventù e non nel mio presente, non posso farlo. Se quella cosa, in questo momento vogliamo chiamarla trap musicalmente, o chiamarla hip-hop 2.0 o in un’altra maniera che ci inventiamo adesso, per me può stare anche bene. Però devo potermici identificare e, in qualche maniera, ritrovarlo anche adesso nella quotidianità. Altrimenti perdo il senso di appartenenza.
Mi ritrovo nell’hip-hop perché mi sento di viverlo tutt’oggi. Le cose che pensavo e ascoltavo e facevo a quattordici anni le faccio in qualche modo ancora adesso, in maniera più evoluta, più consapevole e conscia, ma non nella stessa identica modalità. Per cui vivo attaccato a un’idea ma quell’idea deve sapersi muovere e ritrovarsi attuale.»
Di quello che c’è attorno, c’è qualcosa che ami o in cui ti ritrovi?
«Guarda, è una riflessione che ho fatto parecchio in quest’ultimo periodo perché tutti noi cerchiamo sempre qualcosa che qualcuno abbia ereditato, cerchiamo negli altri, nei giovani, qualcosa che, in qualche maniera, sia un proseguo di quello che pensiamo noi. Ma non è un processo corretto. Forse il processo corretto sarebbe trovare nei giovani lo stesso stimolo che ci ha fatto fare le cose a noi. Che ce le fa fare tuttora, tra l’altro, che è quel motore enorme della creatività, della voglia di dire qualcosa, di rompere qualche schema, di rompere anche un po’ il cazzo ogni tanto, di protestare, di far qualcosa di diverso e di sentirsi unici.
Per cui, riflettevo sul lavoro di un rapper/trapper che non conosco ma che lavora con un sacco di miei amici che è Massimo Pericolo. Mi piace tantissimo adesso ma all’inizio non sapevo se mi piaceva o meno, ho dovuto fare un lavoro di sintesi, cioè, mi sono detto, capiamo perché certe cose mi affascinano e certe cose no. E alla fine le cose che mi affascinano sono quelle che mi ricordano le situazioni che ho vissuto anche io. Anche lui è un ragazzo che è nato in provincia, che vive in provincia, è nato su un lago e quell’atmosfera un po’ di acqua ferma si e no la sento, un po’ di voglia di muoverla l’acqua la sento. C’è una voglia di spaccare il culo che mi piace ma ci sono anche una voglia di poesia e intimità che mi affascinano. Per cui sì, ritrovo un sacco di cose che mi piacciono, poi tecnicamente c’è gente che fa i numeri da paura.
Perché se da una parte c’è Massimo Pericolo (che lavora con Phra che è un mio fratello), dall’altra parte c’è Lazza che fa delle cose che non ritengo parte del mio genere, usa tantissimo l’autotune e fa trap per esempio, ma ha qualcosa da dire e lo fa dritto per dritto come piace a me. Luché, per citare un altro nome, ha avuto a che fare con il rap della mia generazione, perché i Co’ Sang non sono una c*zzata, eppure tuttora si trova a suo agio a far musica con un linguaggio diverso da quello col quale ha cominciato.
Penso, in sostanza, che la forma non sia il fondamento forzato di tutto quel che facciamo.»
“Per fare l’ultimo esempio, quando facevi il demo, o contattavi chi stampava le cassette o lo stampavi uno alla volta”.
Ti stiamo intervistando perché nato dal rap sei approdato a fare grandi cose. La progettualità, il DIY è un valore hip hop?
«Secondo me sì. E facciamo dei paragoni veramente semplici. Com’è nato l’hip hop a New York? O in tutto il mondo in generale? È nato perché c’era gente come Kool Herc che aveva un impianto e staccava la corrente dalle strade per attaccarla all’impianto per suonare in mezzo alla strada la musica che voleva. È nato con un enorme spirito di creatività da tutti i punti di vista, d’innovazione tecnologica, di comunicazione ma soprattutto di grandissima capacità di arrangiarsi nel farlo. Il DIY è anche il sapersi arrangiare da soli nelle cose, il lavoro del produttore hip-hop o del dj è quello di fare grandissime cose con pochi strumenti. Con un campionatore inventare una canzone. Adesso sembra stupido dirlo, perché il campionatore ce l’abbiamo sul cellulare, ma all’epoca era uno strumento di grande innovazione tecnologica. Nel momento in cui è stato alla portata di tutti, che è arrivato a costare poco, se lo sono comprati quelli veramente creativi che riuscivano a fare quello che volevano con pochi strumenti.
Quella cosa è estremamente affascinante ai giorni d’oggi no? Se pensiamo a come l’hip-hop è stato divulgato in Italia, il primo strumento che ci viene in mente è la fanzine che si chiamava Aelle, che ha fatto in modo che, alla generazione che voleva conoscere l’hip-hop, potessero arrivare i graffiti, il djing, la produzione, le quattro arti in generale dell’hip-hop. Uno strumento di divulgazione realmente DIY. Parlavo con Sid che mi diceva, io uscivo fisicamente per fare le fotocopie.
Questo nostro know how di DIY molto pratico, in realtà è stato traslato in maniera digitale verso chi ha imparato a comunicare con linguaggi nuovi. Adesso, per dire, la stessa cosa si fa su Instagram, per raggiungere grandi risultati a zero budget.
Per fare l’ultimo esempio, quando facevi il demo, o contattavi chi stampava le cassette o lo stampavi uno alla volta. Quello è arrangiarsi. Guardavamo con rispetto MixMen Connection che spediva il catalogo in cambio di mille lire. Quel valore, è quello che è sopravvissuto.
Sbattimenti epocali. Rewarding gigantesco.»
La chiacchierata poteva andare avanti per tutta la sera. Perché il feeling è quello che ti fa sentire a casa. Rido è sempre stato un po’ il fratello maggiore della scena hip-hop e lo dimostra anche qui. Vorremmo lo conosceste di persona, perché un’intervista può fare, ma dal vivo è tutta un’altra cosa.
Intervista a cura di Elena Exena e Mdj+.