La recensione di Tha Carter V è frutto di un sentimento di nostalgia mista ad un’ammirazione senza fine per chi porta in alto il rap in questo 2018.
La recensione di Tha Carter V avrebbero potuto farla anche solo i numeri. Il nuovo album di Lil Wayne ha infatti esordito nella classifica Hot 100 di Billboards con ventidue delle ventitré tracce complessive che compongono l’album. Traguardi che non dovrebbero sorprendere vista la smisurata attesa da parte di milioni di ascoltatori sparsi in tutto il mondo, molti dei quali sono stati iniziati a questa cultura proprio dal Sig.Carter. Abbiamo sottolineato spesso di come questo 2018 sia stato un anno importante per dei ritorni illustri, ma forse questo batte di gran lunga i suoi concorrenti.
La serie dei Carter è una vera e propria istituzione nell’Hip-Hop ed in quanto tale è fondamentale interpretarne le sue intenzioni per comprendere a pieno le direzioni verso cui le acque si stanno attualmente muovendo. Tha Carter V non è soltanto un ritorno in grande stile ma la inconfutabile prova che la centralità delle liriche e la solidità del background sono le carte fondamentali che permettono oggi ad un artista di essere definito tale.
Perché il 2018 è anche l’anno del trionfo del conscious e del ritorno ad una certa maniera di fare e di intendere il rap. Conscious non significa necessariamente profondo in questo caso, ma è inteso in un modo molto più personale e caratterizzante. Ultimamente sono stati molti gli episodi dove la profondità concettuale e lirica di artisti – anche molto importanti – è finita presto col diventare luogo comune o banalità. Perché non basta un nome a costruire nuovi ponti comunicativi. Vedi Kanye West, che ha subito una forte battuta d’arresto nel suo glorioso percorso artistico, non riuscendo a superare precedenti lavori che lo avevano incoronato a ragion veduta tra i GOAT del nostro secolo.
Conscious è quando un artista riesce ad abbattere ogni sovrastruttura tirandone fuori soltanto la struttura essenziale. Chi potrebbe cantare dei demoni vissuti da Lil Wayne se non Lil Wayne stesso? Chi altro potrebbe abusare di determinati giochi di parole grazie al suo timbro vocale inconfondibile? Di recente siamo stati erroneamente abituati anche ad un appiattimento emotivo che ha ridotto notevolmente le prospettive della profondità in musica. Nel caso di Wayne, invece, parliamo di una narrazione complessa e non sempre intuibile che costruisce – e poi distrugge – pezzo dopo pezzo una delle personalità più importanti che l’Hip-Hop abbia mai visto, attraverso l’utilizzo di una cifra stilistica riconosciuta impreziosita questa volta da un frequente storytelling molto intenso.
Tha Carter V è un disco imperfetto, coerente, lungo e iconico. Il buon vecchio Dwayne ne ha viste parecchie di cose in questi anni. Dal braccio di ferro infinito con la sua Cash Money Records fino ai frequenti problemi giudiziari che da tempo immemore lo vedono coinvolto. Per tutto questo tempo nessuno di noi credeva davvero che Lil Wayne potesse tornare ai vertici della scena, che la sua figura sarebbe rimasta più una proiezione passata piuttosto che una vivida rappresentazione del presente aperta al futuro.
Weezy invece ci ha sorpreso un po’ tutti con un disco rappresentativo, che apre le porte anche ai non fan o a quelli meno accaniti. Il disco è molto lungo nella sua totalità e qualche traccia risulta essere obiettivamente più fiacca rispetto alle altre, ma è tutto quanto molto autentico. Dallo struggente intro realizzato dalla madre sino al malinconico grand finale di Let it All Work Out. Il disco suona in modo importante in ogni sua traccia che scorrendo compone un quadro completo dettagliato e pieno di sfumature, fatte anche di momenti leggeri e da esercizi di stile importanti tanto quanto le tracce più sentite.
Sembra esserci del filler in tracce come What About Me, in un ritornello forzato del defunto XXXTentacion ed in presenze chiaroscuro di ospiti quali Nivea o Ashanti. Alcune tracce potevano forse essere tagliate per mantenere una certa unità concettuale ma quel che rimane alla fine dell’ascolto è una gran bella boccata d’aria fresca.
Alcuni forse storceranno il naso davanti a produzioni minimali molto simili tra loro seppur con qualche picco (come il piano di Can’t Be Broken o il sample di Took His Time) ed intervallate da qualche instant classic come Mona Lisa insieme a Kendrick Lamar, ma alla lunga risulteranno adatte a far risaltare le centinaia di barre seminate nel disco, tutte di un livello molto alto.
Dalle intime confessioni di Open Letter, sino ai quesiti di fede e di amore che affronta nelle toccanti Took His Time e Mess, dove la semantica resta legata e coerente al mood principe del disco, di un Wayne introspettivo come raramente abbiamo potuto ascoltare. Noterete anche come molti dialoghi immaginari – e reali – con la madre siano al centro del progetto, attorno ai quali ruotano le tracce più significative dell’album. La sua figura materna è il senso ultimo che Carter è riuscito a trovare per guardarsi dentro e cercare l’ispirazione tanto desiderata.
Qualche tempo fa, MadMan diceva in una barra: “Dicono che Weezy sia in coma per codeina, penso tanto pure se vai in alto tutto è come prima”. Per ricordare che alla fine parliamo sempre di esseri umani che nonostante il successo vivono alla stregua delle loro emozioni, condizionati da un mondo volutamente distante da quello comune cui siamo abituati. Del resto essere artista non significa soltanto assumere farmaci o droghe e farle diventare moda ma affrontare sé stessi e riuscire a vincersi. O a perdersi.
Non sappiamo se sia il migliore album del 2018, ma sicuramente è il miglior progetto di Lil Wayne dai tempi del leggendario Tha Carter III.