Amir Issaa, dal cantare davanti ad un microfono al lavoro dietro la tastiera, ecco il suo libro “Vivo per questo”.
“Ma io chi ero? Ero Massimo, ero Cina, ero Amir?” (…) Fu Masito, un po’ di tempo dopo, a farmelo notare. -Lo sai che Amir, letto al contrario, è Rima?”
“Vivo per questo” non è un’autobiografia, non è un libro di propaganda e non è un’analisi sociologica. Ma è un po’ tutte e tre le cose. Partiamo da questo presupposto per analizzare questo romanzo che nel 2017, insieme a molti altri racconti di artisti Hip-Hop di svariata natura e con fortune alterne, hanno messo nero su bianco le loro esperienze. Ma si tratta di un’opera profondamente diversa e altrettanto profondamente unica. Vuoi per la storia del rapper, vuoi per il mix rocambolesco di eventi, vuoi per la capacità di tracciare una linea temporale che ripercorre la storia della Doppia Acca romana e non solo:
“Chi considera l’HipHop come una controcultura nera dovrebbe ricordare che Taki 183 era bianco, e così molti altri. La maggior parte dei graffitari più prolifici erano bianchi e ispanici (…) Ma c’erano due basi comuni: la prima e fondamentale, che era abbastanza selvaggio crescere da adolescenti nelle periferie Newyorchesi di quegli anni. La seconda era la voglia di gridare, e la capacità di farlo con una bomboletta in mano.”
Si tratta di un libro molto toccante, capace di graffiare e mantenere anche un pizzico di suspense in alcuni tratti. L’infanzia e l’adolescenza del rapper romano vengono rispolverati e raccontati attraverso la rivisitazione di luoghi della capitale sconosciuti ai più, ma carichi di una potenza simbolica che trasuda dalle pagine. Un ragazzo “impossibile da inquadrare nei canoni sociali di tutti gli altri, un emarginato”, salvato a più riprese dalla sorella e capace di fare amicizia con tanti ragazzi provenienti da diverse parti del mondo. Passando attraverso personaggi che sfidano apertamente gli stereotipi come il buon professore Gianni “che il razzismo lo ha visto in faccia, e lo ha preso a schiaffi”, come Napal, Masito, Dj Baro, Grandi Numeri e i mai dimenticati Crash Kid e Primo.
Il senso di appartenenza alla città rimane invariato nel tempo (il suo amico Emiliano confessa: “A volte penso che non dovrebbero chiamare l’esercito, per capire come presidiare i luoghi caldi, come difendere le metropolitane e gli aeroporti. Dovrebbero chiamare noi”), e ha la sua massima espressione nella volontà del protagonista di far buttare le proprie ceneri nel Tevere. Il tempo che viene spesso descritto come un concetto relativo, come nelle notti passate dentro i cespugli a nascondersi o seduti su un marciapiede, ma che alla fine si fissa più volte su quel maledetto numero cinque. 5 del mattino.
L’argomento ius soli e seconde generazioni (accennando anche alle terze) è l’altra colonna portante del racconto, soprattutto per un artista che è stato il primo vero forte simbolo di questa lotta intergenerazionale e interrazziale (prima degli stereotipati prodotti musico-politici confezionati su misura di oggi) negli uffici della Virgin. L’importanza della Ius Music del 2006 che lo ha spinto fino al farsi conoscere e a tenere conferenze in Giappone e nei college americani, giungendo poi alla formulazione di una proposta formale al Presidente della Repubblica nel 2012. La nascita di un’associazione per promuovere questa causa vissuta in prima persona, gli sforzi ripetuti e troppo spesso vani, ma le soddisfazioni che non mancano mai.
Poi quel Primo Maggio che sconvolge tutto, l’arrivo del figlio, il rapporto col padre, l’amore della madre. Le dinamiche familiari restano comunque il filo conduttore e mostrano indubbiamente il punto di contatto maggiore con la sua musica, nonostante molto spesso nel libro lo stesso Amir sottolinei la sua volontà iniziale di tenere questi due aspetti separati. La proiezione al Festival del Cinema di Venezia di “Scialla!”, con quella strana sensazione di pace che si impossessa di lui proprio alla fine del film è la chiusura perfetta del cerchio. Il rapporto travagliato con la giustizia, il ringraziamento alle guardie carcerarie che con un semplice sorriso miglioravano le giornate in cui, ancora bambini, si recavano in prigione per salutare il padre (giusto per ribadire che l’orientamento del mondo HipHop non è solo “ACAB” ma va calibrato a seconda dei contesti, per sottolinearlo riporto le parole di J-Ax a riguardo: “Così ci sono sbirri e poi ci sono poliziotti, sono vestiti uguali ma i primi sono corrotti”) sono altri agganci a sfere di vita personali che si possono trovare sparsi in “Vivo Per Questo”.
In parallelo Amir Issaa riesce anche a ripercorrere la storia dell’Hip-Hop che ha respirato già da tenera età. Il writing, sul quale si concentra ampiamente la prima parte del libro, assume un ruolo chiave che è utile spiegare attraverso le stesse parole del protagonista.
“Mi chiedo dove vada a esprimersi quel bisogno di uscire dagli schemi e di far sentire il proprio grido”
“Chi non sa, ma parla, spesso sostiene che l’obiettivo dei writer è abbellire la metropoli con i colori. Non è vero. In questo movimento, l’arte è un sottoprodotto della ricerca di identità. Pensiamo solo alla realtà da cui arriva (…) Scrivere il tuo nome in giro per la città era il tuo modo di gridare: -Io esisto!-“
O attraverso le parole dell’amico Nepal:
“Chi si avvicinava a questa cultura negli anni Ottanta è perché non si riconosceva in nessun’altra dimensione o mentalità. Era una via di fuga. Ed era una cultura che non sarebbe mai nata qui spontaneamente, andava importata: una mentalità in cui conta solo quello che sai fare, mentre noi siamo un paese feudale e familista in cui conta dove nasci e chi conosci.”
Esprimendo anche qualche parere sul panorama musicale italiano odierno:
“Nell’Italia degli anni Novanta, però, il rap allignava nei centri sociali, nelle case occupate, e dunque era di sinistra. Fare una canzone sulle proprie scarpe, o sulla propria voglia di diventare ricco e spaccare il culo a tutti, era considerato sbagliato e commerciale.”
Mi preme riportare il bellissimo excursus sul meeting incentrato sulla figura del B-boy, dove un rappresentante Africano ha commentato: “Nel mio paese abbiamo un problema. Noi il cemento non lo abbiamo proprio. Se ci asfaltate qualche strada, magari possiamo tornare alle origini anche noi”, stupendo per ironia e allo stesso tempo schiettezza nel riuscire a mettere al centro la questione del contesto (per ricollegarci al discorso precedente), fondamentale in ogni aspetto della vita come nella cultura Hip-Hop.
Insomma, si tratta anche di un vero e proprio romanzo con colpi di scena e immagini di impatto. Per questo non scenderemo nei particolari a livello di trama, non vogliamo spoilerare e anticipare nulla di più. Leggetelo, se avete voglia di crescere come persone e comprendere meglio l’integrazione celata al di là degli schermi, se volete capire da dove arriva la musica che racconta senza veli la vita di un artista, se volete intuire cosa significa lottare ogni giorno per riuscire ad urlare il proprio nome, leggete la storia di Amir Issaa.
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