Jaden Smith è molto di più dell’ombra di suo padre
Una cosa che la nuova generazione di rapper ha imparato alla perfezione dai più grandi è la capacità di mischiare i generi. Le nuove leve sono molto interessate a sperimentare sul suono, spaziando nelle melodie e nei generi musicali, rendendo la loro musica inclassificabile. Questa lezione – imparata da Kanye West, Frank Ocean, Drake e Kid Cudi (per citare i più famosi) – è ora il punto di forza dei giovani più interessanti presenti sulla scena – i vari XXXtentacion, Lil Peep (Rip) e Yung Lean.
A questa lista si può aggiungere Jaden Smith, figlio di Will Smith e Jada Pinkett, uscito nei giorni scorsi con un progetto atteso da quasi tre anni: “Syre“. Il giovane artista mancava dalla scena musicale dal 2015, e negli ultimi 3 anni si era concentrato sulla sua carriera da attore (in “The Get Down” era Deezee) e su progetti legati al mondo della moda, con il progetto MSFTS.
Anticipato da diversi singoli, primo fra tutti “Fallen” uscito nel dicembre 2016, “Syre” è un progetto ambizioso, complesso e molto studiato, decisamente maturo per essere di un ragazzo di appena 19 anni.
Nell’ora e dieci di ascolto, per la lunghezza di tutte e diciassette le sue tracce, si trovano sparsi come briciole pezzi di generi musicali differenti intrecciati l’uno all’altro. I cambi di ritmo e gli stacchi fanno da padrone all’interno delle canzoni, che spesso sono magari divise in due o tre parti, alternando rap, cantato, pezzi strumentali, per poi tornare al rap. Tutto questo viene gestito con molta precisione dall’autore che sfrutta a pieno la consapevolezza acquisita in questi anni di studio, per creare un prodotto molto variegato e non di facile lettura.
Questo ragazzino ha fatto un disco con le palle. Per esempio, “B”, “L”, “U” e “E” – le prime quattro tracce del disco – sono collegate tra di loro da un filo musicale e concettuale. All’interno delle prime quattro canzoni, immerge l’ascoltatore in un micro mondo fatto di sensazioni e di idee che ruotano attorno all’idea di essere blu. Il colore blu è spesso associato ad un idea di melanconia e tristezza: Jaden Smith spiega in quattro diversi contesti cosa voglia dire per lui essere blu, spostando sempre il discorso da un piano personale ad uno generale e viceversa:
“If happy, I would die here in your arms
Don’t cry because the ocean makes me blue
So blue, so blue”
La cosa interessante è che tutte queste sono collegate tra di loro da un filo musicale, dove finisce una, inizia l’altra utilizzando magari lo stesso beat. La prima traccia e la seconda sono legate da un basso elettronico, che ricorda il Kanye West di “Yeezus”. Ma non solo, sempre in queste prime quattro canzoni (che sono abbastanza esemplificative della complessità del disco), si possono trovare esempi di r’n’b che poi verrano ripresi molto bene anche successivamente in altri brani come “Fallen” o “Ninety“.
Non mancano tuttavia elementi molto più facili, per esempio “Breakfast” feat. ASAP Rocky, “Icon” o “Batman” sono brani rap abbastanza classici, anche se risentono comunque del desiderio da parte dell’autore di consegnare all’ascoltatore un prodotto curato nei dettagli.
La scrittura è estremamente precisa: è un disco che sia nei momenti più cantati che in quelli rappati suona molto bene, il flow non risulta mai essere ne troppo tecnico ne troppo mumble, restando in una normalità estremamente apprezzabile. Quando è necessario accelerare Jaden non si tira indietro, allo stesso modo di quando deve rallentare, facendosi guidare molto dalla base più che dal suo desiderio di risultare forte. Il risultato che ne scaturisce è coeso e compatto.
Volendo trovare un difetto, alcune volte risulta prolisso, non è semplice gestire un disco da 17 tracce senza risultarlo, se avesse tolto 3/4 tracce, la qualità sarebbe stata la medesima ma avrebbe reso l’ascolto più accessibile ad un maggior numero di persone. Chiedere all’ascoltatore più di un’ora d’ascolto per un disco, con alcune tracce da oltre 6 minuti di ascolto, non è poco e non tutti se lo possono permettere, nemmeno walking living legends come Kendrick Lamar o Jay Z lo fanno. Jaden Smith ha esagerato in questo, cercare una complessità che spesso funziona e colpisce ma altre volte risulta forse fin troppo, considerando soprattutto le modalità di fruizione della musica al giorno d’oggi.
Nonostante ciò, il lavoro è davvero ottimo e la speranza è che sia solo l’inizio.